L’importanza attribuita a Tezuka, e a lui soltanto, è accidentale: infatti pare quasi più comodo dimenticare che Shōjo Club, la rivista fondata dalla casa editrice Kodansha nel 1923, era la testimonianza che un target di giovani lettrici era dignitosamente accontentato dall’editoria dell’epoca, anche se i suoi contenuti stavano allo shōjo moderno come il Corriere dei Piccoli del 1930 staserebbe a una pubblicazione corrente.
Né, d’altro canto, la premura di scovare un fondatore a ogni costo deve distogliere l’attenzione dai meriti di Tezuka nell’ambito della modernizzazione del fumetto giapponese attraverso il cosiddetto story manga, cioè “un fumetto basato su un racconto che adopera la struttura narrativa tipica del cinema”, come ebbe a dire lo stesso autore, che aprì la strada alla serializzazione dei fumetti come oggi noi la intendiamo.
Non era la prima volta che Tezuka aveva a che spartire con un volto femminile e fanciullesco (vedi la piccola protagonista di Metropolis, un manga del 1949) ma, è il caso di dirlo, si intromise la sua passione per il teatro Takarazuka e quella, apparentemente secondaria, per l’animazione disneyana, che influenzò la sua produzione ben oltre gli anni Cinquanta. […]
Se davvero su quelle tavole stavano scolpite le leggi figurative del futuro fumetto per ragazze, per definizione bisognerà dunque ripensare la fascinazione tezukiana per Disney e soci come a una madre “biologica”, dalla quale in seguito prese il via la smodata passione per gli occhioni luccicanti e per una sgargiante voglia di romantiche posture.[…]
La Principessa Zaffiro, in altre parole, fornì, negli anni Cinquanta, una primordiale coscienza epocale ed estetica per suggerire allo shōjo di flettersi per un istante e ripensare seriamente al pubblico femminile. Che proprio Tezuka dovesse fornire un simile servizio non appare così scontato: egli era a tal punto affetto da cosmopolitismo che le ragioni per rimodellare lo shōjo prendevano vita autonomamente, ad esempio, dalla sua passione per la cinematografia animata e non (dietro all’ingombrante Walt Disney c’era posto anche per Tex Avery, i fratelli Fleischer e Fritz Lang, il regista tedesco di Metropolis), dall’accumularsi di stili grafici che il mondo del fumetto è per sua natura portato a riprodurre e fagocitare, soprattutto, dal modo di distinguere il suo disimpegno intellettuale entro il perimetro di ogni vignetta.
Alle spalle di La Principessa Zaffiro e delle sue origini aleggiavano però numerose affinità con il mondo familiare e privato del disegnatore. Importa poco sapere che Osaka fosse la sua città natale. E’ più importante venire a conoscenza che egli trascorse vent’anni della sua vita in una città poco distante, Takarazuka, la quale, sebbene non lo fosse demograficamente, pareva una felliniana “città delle donne” con il pallino per il teatro di rivista, che di quella città portava peraltro il nome, anche se è difficile oggi pescarlo da qualche parte negli indici delle guide turistiche, tanto meno in quelli dei manuali di storia del teatro giapponese.
Mamma Tezuka ne era appassionata, tanto bastava, e il giovane Osamu che la scortava fedelmente a vedere quegli spettacoli se ne innamorò a sua volta.
Articolo estratto dal libro Come bambole. Storia e analisi del fumetto giapponese per ragazze di Mario A. Rumor
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