“Il diritto positivo giapponese è nel suo complesso un mondo nato dalla traduzione, o quantomeno una città costruita su una rete sotterranea di fondamenta plurilingui”
Kitamura – La cultura giuridica giapponese)
E’ stato sintetizzato così il rapporto particolare tra il diritto giapponese e le lingue straniere. Per capire in cosa consista questo rapporto, e quale sia l’influenza esercitata ancora oggi da questo retaggio storico occorre analizzare l’origine dell’ordinamento giuridico moderno giapponese.
Il linguaggio giuridico giapponese moderno affonda le sue radici nella Restaurazione Meiji (1868). Per i riformisti dell’epoca, la creazione di un sistema moderno costituiva una delle priorità del nuovo Giappone. Questa impresa richiese l’introduzione della terminologia tecnica del diritto e delle scienze sociali, per permettere il dialogo con l’esterno e l’uso corrente all’interno del Paese.
Fu un periodo di grande fermento intellettuale, e nell’ampio dibattito su come portare velocemente il Giappone sulla strada della modernità vi fu chi propose di limitare l’uso dei kanji, altri suggerivano l’abbandono dei kanji in favore di hiragana e katakana, vi fu chi invocò la completa sostituzione del sistema di scrittura giapponese con l’alfabeto latino o l’adozione tout court di una lingua straniera come lingua nazionale.
Nonostante queste proposte estreme, la strada percorsa per modernizzare la lingua ed introdurre le idee di oltremare non costituì una rottura con la particolare vocazione della lingua (e per certi versi della cultura in toto) giapponese all’appropriazione selettiva e alla rielaborazione delle cose che provengono dall’esterno.
L’esigenza di unificare il diritto nazionale e dare in tempi rapidi al Giappone un ordinamento giuridico moderno indusse i giuristi dell’epoca a guardare ai modelli di diritto continentale caratterizzati dalla presenza di costituzioni e codici. Nonostante l’alta considerazione in cui era tenuto il diritto inglese, nella sua visione naif dei politici del tempo, l’immagine di un ordinamento giuridico contenuto per intero in una serie di testi scritti si confaceva maggiormente alle proprie esigenze di celerità.
In quegli anni Eto Shinpei, che in seguito rivestì la carica di Ministro della Giustizia, ordinava a Mitsukuru Rinshou, nipote di Genpou ed uno dei pochi poliglotti dell’epoca ad avere competenze anche in campo giuridico, di tradurre il codice civile francese il più in fretta possibile, senza badare troppo agli errori, aggiungendo che poi si sarebbe occupato di promulgarlo sostituendo “francese” con “giapponese”.
Nel 1869 venne dal governo Meiji l’ordine di tradurre il codice penale francese. A quel tempo ero in servizio presso il Daigaku Nankou. Anche se mi era stato ordinato di compiere la traduzione, non riuscivo a capirla. Tuttavia, non era un problema di completa incapacità di compredere, anche se in effetti al primo impatto non ci capivo molto. Ma dal momento che pensavo che per certi versi mi sarebbe piaciuto tradurlo, iniziai a tradurre.
Tuttavia, era una traduzione fatta senza commentari, dizionari o aiuti, ed ero nella nebbia più fitta, ma all’inizio scrissi solo quello che riuscivo a capire, facendo errori man mano che procedevo. Successivamente tradussi il codice civile, il codice di commercio, il codice di procedura civile, il codice di procedura penale, la costituzione, ma feci delle traduzioni davvero fumose.
Dalle parole di Mitsukuri Rinshou emergono chiaramente le difficoltà con cui dovettero confrontarsi i primi traduttori del diritto occidentale. Le parole e i concetti provenienti dall’Occidente furono espressi dapprima attraverso neologismi composti da kanji accostati in maniera originale o attraverso parole già esistenti, alle quali veniva associato un significato nuovo, da cui veniva data un’ampia spiegazione.
In un secondo momento a queste tecniche se ne affiancò una terza, che consisteva nell’introdurre le parole straniere tramite la trascrizione per mezzo dei kana. In principio la scelta cadde sul sillabario corsivo degli hiragana, ma nel 1884 Outsuki Fumihiko adottò la regola di riprodurre i prestiti linguistici attraverso precise convenzioni grafiche.
Da allora il sillabario squadrato dei katakana è utilizzato principalmente per questi termini. Se da una parte essi sono più fedeli all’originale poiché, nei limiti della fonologia giapponese, ne riproducono il suono, dall’altra essi non sono altro che un flatus vocis, poiché si presuppone la precomprensione del destinatario, o nel senso della conoscenza del termine straniero di partenza o comunque del significato a cui il termine in katakana faccia riferimento.
In alcuni casi gli intellettuali dell’epoca preferirono utilizzare un metodo ibrido, scrivendo sia il neologismo in kanji che la parola occidentale corrispondente. Ogni scelta di traduzione presentava vantaggi e punti deboli. L’uso di parole già esistenti seguite da una dettagliata spiegazione di ciò che il termine corrispondente significava in Occidente permetteva ai traduttori di fornire un testo facilmente comprensibile al lettore giapponese, a scapito della fedeltà dell’originale.
D’altra parte, la creazione di neologismi attraverso i kanji, facendo leva sulla conoscenza da parte del lettore dei singoli ideogrammi, permetteva spesso una prima comprensione anche se nel caso di termini astratti, di cui il giapponese classico era estremamente povero, si poteva dare luogo ad equivoci.
Nel lungo periodo furono proprio questi termini, le “parole della traduzione”, più precise e più fedeli all’originale, che sopravvissero e che, grazie soprattutto all’opera degli intellettuali dell’epoca, entrarono a far parte del vocabolario giapponese. Anzi, proprio il fatto che queste parole si distinguessero dal lessico quotidiano fece sì che il loro uso fosse visto anche come segno di raffinatezza ed erudizione.
Tratto dal libro “Trattato di Diritto Comparato” diretto da Rodolfo Sacco – “Diritto dell’Asia Orientale” di Gianmaria Ajani, Andrea Serafino e Marina Timoteo, con la collaborazione di Chen Han, Andrea Ortolani e Piercarlo Rossi
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