La farsa popolare ha origini che profondano nella notte del tempo. Lontanamente simili alle nostre atellanae le quali come è noto venivano recitate da attori mascherati che stilizzavano alcuni tipi di buffoni, i Kyougen (lett.: «parole folli») costituiscono l’esempio tipico di farse a carattere plebeo scritte in gergo o dialetto.
Brevi e saporite, queste specie di commediole buffe nelle quali abbondano i frizzi, i lazzi, le bastonature, gli equivoci, venivano recitate tra un Nou e un altro, allo scopo di allentare la tensione drammatica delle melanconiche vicende che quelli rappresentavano.
Incerta è la data di nascita dei Kyougen, i quali, secondo alcuni storici sarebbero contemporanei o posteriori ai Nou e secondo altri nettamente anteriori. […] Probabilmente il Kyougen può farsi risalire a un’epoca assai più remota, come derivato, ad esempio, dai koma-gaku, vale a dire da una categoria di balli coreani a carattere di scomposta e licenziosa danza popolare. […]
I Kyougen si differenziano tecninicamente dai Nou per l’assoluta assoluta assenza del coro e per il loro linguaggio che […] è schiettamente popolare e non di rado licenzioso, e per l’assenza di decorazione e di accessori.[…]
Come il Nou i personaggi del Kyougen variano da due a sei, ma spesso da due o tre attori soltanto. Le azioni, tutte buffonesche, ripetono temi vecchi come il mondo: mogli e mariti gabbati, padroni e servitori che cercano di ingannarsi reciprocamente, lestofanti vittime dei loro stessi artifici. I dialoghi, dalle battute rapide e incalzanti, sono spesso interrotti da inseguimenti, urla, imprecazioni e bastonature finali. […]
Mentre la comicità dei Kyogen si esaurisce nel breve e rapido svolgersi di una situazione, descritta non di rado con intenzione di satireggiare una certa categoria della società, signori, cavalieri, borghesi, mercanti e perfino bonzi, demoni e spiriti, sotto l’egida di un governo più liberale e corrotto, lo spirito comico va orientandosi verso una forma più realistica anche se di un realismo quasi paradossale che può rammentare, con tutte le riserve del caso, i nostri sketches di teatro da camera.
Alla parola spesso triviale si accompagnano il canto, il gesto e la pantomima, non più legati ai canoni tradizionalistici della facile parodia satiresca, ma fluttuanti in una atmosfera di morboso realismo che si inserisce nei teatri di varietà, costruiti su battelli attraccati lungo le sponde dei fiumi e dei canali, dove i mercanti e i viaggiatori stranieri che giungono da plaghe lontane portano i loro esotici e spregiudicati costumi.
Prende così voga – specie nell’ultima parte dell’epoca Tokugawa – il Rakugo, specie di racconto burlesco a sfondo naturalistico. Più che di teatri veri e propri i Rakugo costituiscono il divertimento dei locali di caffè-concerto.
Il protagonista dei Rakugo, o per meglio dire il loro interprete, si chiama hanashika ed ha arte di trasformista, imitando i personaggi dei più diversi gradi sociali nell’accento, caratteri ed abitudini. Le parole che costituiscono i dialoghi dei Rakugo sono ancor più «folli» di quelle dei Kyougen o lo hanashika mostra la sua valentìa col sottolineare o mimare una particolare situazione piuttosto che un’altra, col dare ad una battuta o ad una pausa tutto il rilievo dovuto per meglio esprimere l’efficacia di un bisticcio di parole, le saporose conseguenze di un equivoco, le piacevoli assurdità di un paradosso.
Tratto dal libro Storia del Teatro Giapponese di Pietro Lorenzoni
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