La tradizione xilografica giapponese è qualcosa di unico nel panorama dell’arte mondiale. La corrente artistica comunemente conosciuto con il nome di ukiyo-e presenta infatti due caratteristiche apparentemente contraddittorie: una produzione di massa, con tirature anche di migliaia di copie (decine di migliaia in casi eccezionali), e un livello qualitativo tale da porre queste stampe ai vertici della grafica di ogni tempo e di ogni paese.
La tecnica della xilografia fu introdotta in Giappone dalla Cina nell’VIII secolo e per circa 800 anni fu monopolio dei monasteri buddhisti, che se ne servivano per diffondere i testi sacri. Spesso venivano stampati anche immagini delle divinità, ma nel complesso si può dire che questa produzione non interessa granché l’appassionato di arte.
Ma all’inizio del XVII secolo la situazione cambia completamente. In quegli anni si attua infatti la pacificazione del Giappone, prostrato da decenni di sanguinose guerre civili, ad opera di tre condottieri (Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu) che, l’uno dopo l’altro, erano riusciti a ricondurre il paese sotto un unico, forte potere militare: quello dello shougun (generalissimo), che fissa la sua residenza a Edo, l’attuale Tokyo.
La pace raggiunta favorisce il rifiorire delle attività economiche e la nascita di una classe media (in giapponese chounin, letteralmente “cittadini”) di mercanti e piccoli imprenditori che rapidamente, grazie alla loro intraprendenza, si arricchiscono alle spalle della classe dominante, i bushi o samurai. La storia del periodo Edo (altrimenti detto periodo Tokugawa: 1600-1868) vede infatti il progressivo travaso di ricchezza dai bushi, legati alla rendita fondiaria e fiaccati e impoveriti dai mille obblighi e corvées cui li costringeva il potere dispotico e sospettoso dello shougun, ai chounin, ufficialmente disprezzati, ma sempre più necessari alla classe dominante, che ad essi doveva ricorrere per ottenere prestiti e servizi.
È proprio grazie a questi nuovi ricchi che la xilografia diventa un’arte vera e propria, difficilmente riconducibile, tra l’altro, a modelli cinesi, come invece spesso è avvenuto per altre grandi espressioni artistiche del Giappone. La produzione di libri stampati passa nelle mani di imprese con finalità schiettamente commerciali: ormai c’è un pubblico i cui gusti vanno serviti e assecondati (o, proprio come succede oggi, manipolati dai produttori stessi).
Nella prima metà del XVII secolo l’editoria si concentra nella regione del Kamigata, la zona di Kyoto e Osaka, l’antica culla della civiltà nipponica. Ma nella seconda metà del secolo il primato editoriale passa a Edo, la città nuova, vitale spregiudicata. La popolazione di Edo si era accresciuta notevolmente, anche a causa di un editto shogunale del 1638 che, per ragioni di controllo, obbligava i daimyou (i grandi signori feudali) a soggiornare ad Edo con tutto il loro seguito per lunghi periodi (di solito sei mesi all’anno) e a costruire una residenza in quella che ormai era, di fatto se non di diritto, la nuova capitale del Giappone. È Edo quindi la vera patria dell’ukiyo-e.
Ukiyo-e può essere tradotto come “immagini del mondo fluttuante”. Giova ricordare che il termine ukiyo (mondo fluttuante) era di provenienza buddhista e sottolineava in origine il carattere impermanente, e quindi doloroso, della vita umana. Ma nel XVII secolo le connotazioni positive di questa parola prevalgono su quelle negative e l’ukiyo diventa il mondo profano e disincantato dei piaceri effimeri del teatro kabuki, delle gite in barca, delle case di piacere, unici sfoghi per l’energia di una classe sociale, i chounin, a cui l’accesso alle cariche pubbliche, e quindi la possibilità di azione politica, erano proibiti.
Nel 1661 lo scrittore Asai Ryoui descrive così l’ukiyo-e: “vivere solo nell’attimo presente… provare piacere solo a ondeggiare, ondeggiare senza curarsi neanche un po’ della miseria che ci guarda in faccia… essere come una zucca galleggiante sulla corrente di un fiume: questo è ciò che si chiama ukiyo”. Nella seconda metà del XVII secolo, la parola ukiyo allude ormai all’edonistica filosofia del chounin e l’arte che egli ricerca e patrocina non potrà che chiamarsi ukiyo-e.
Il chounin in queste stampe non vuole celebrare se stesso, come invece i committenti borghesi di tanti dipinti italiani del Trecento e Quattrocento che fanno capolino a fianco del trono di una Madonna con Bambino. Vuole vedere i suoi idoli, gli attori e i personaggi del teatro, le cortigiane belle ed eleganti, il suo mondo, insomma.
Naturalmente, a un aumento sempre crescente della richiesta di stampe e libri illustrati, fa riscontro una rapida evoluzione delle tecniche di stampa e di distribuzione. Fino all’alba del XVIII secolo le stampe (chiamate sumizuri-e) erano in bianco e nero e veniva usata una sola matrice di legno. Poi appaiono le stampe colorate a mano e, verso la metà del secolo, le prime vere stampe policrome (dette benizuri-e), con due o tre matrici, una per ogni colore. Nel 1765 nascono le stampe nikishi-e, che utilizzano fino a 10-15 matrici diverse.
Le stampe ukiyo-e erano il frutto del lavoro di diverse persone, anche se abitualmente venivano e vengono attribuite a un personaggio solo: era lui che testava il polso del mercato. L’editore quindi contattava l’artista, il quale faceva un disegno preliminare a inchiostro su un foglio di carta, detto hanshita-e. il disegno passava poi alla bottega dell’incisore: questi incollava il voglio su una tavola di legno di ciliegio e, servendosi di vari strumenti, riproduceva il disegno sulla tavola (per farlo doveva necessariamente distruggere lo hanshita-e), lasciando in rilievo le linee che l’artista aveva disegnato.
Le parti più facili da incidere erano di solito lasciate agli apprendisti. La matrice passava ora allo stampatore: il passo seguente era tirare una quindicina di copie in bianco e nero, dette kyouyou-zuri, e ritornarle al pittore, che a questo punto poteva finalmente dare le indicazioni sui colori da usare, uno per foglio. I kyouyou-zuri tornavano così ancora una volta allo stampatore, che preparava una matrice per ogni foglio, vale a dire una per ogni colore.
Dopo questo complesso viavai, si passava finalmente alla realizzazione della stampa vera e propria. La prima a essere stampata era la matrice con le linee nere di contorno, dopo che il foglio di carta era stato opportunamente trattato con una sostanza detta dousa; poi si stampavano le altre matrici, in genere cominciando da quelle con i colori più tenui. Il foglio veniva posto sopra la matrice inchiostrata e il tergo premuto con un tampone, detto baren. In un giorno si potevano fare circa 200 copie.
Fonte: Tratto dal Catalogo della mostra tenutasi nell’autunno 2003 all’Università di Bologna, redatto da Alessandro Guidi.
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