Il carattere principale del dramma giapponese, anzi potremmo dire del melodramma, tanto è intima l’unione della musica e della narrazione scenica, è la lentezza e la esagerata abbondanza delle scene. Peraltro, comprendendo il soggetto e formandosi un’idea chiara di quelle lungaggini, si giunge ad apprezzare a dovere un’arte, che è anzitutto vera e che contiene elementi preziosi, dai quali la commozione e l’interesse liberamente derivano.
Le scene, gli episodi sono lunghi, solo perché si vuole rappresentare il corso naturale degli avvenimenti nella vita e non ne viene ai giapponesi quella stanchezza che verrebbe a qualunque pubblico europeo. Il giapponese chiede solo una riproduzione della vita ritratta nei suoi momenti più eroici; è perciò che uno dei caratteri più comuni e costanti del dramma è l’intensità con la quale il buon pubblico domanda di essere divertito e interessato per lunghe e lunghe ore di seguito.
Nella commedia, invece, la conformità con la vita reale è meglio compresa, quindi meglio attuata; ma in ambo i generi si ripete sempre lo stesso meccanismo dei molti giri prima di raggiungere l’intento: il carattere dell’arte orientale in ogni sua manifestazione.
La semplicità non esiste nell’intreccio generale, né nei dialoghi o nelle lunghe tirate ad effetto; non la si trova nemmeno nella riproduzione dei caratteri. Nel dolore specialmente, e nella disperazione, gli attori abbondano sempre nei segni esterni e non sarà difficile assistere per una buona mezz’ora al monologo dell’artista che si rotolerà per terra come un dannato, con scoppi di voci terribili, con ululate, con lamenti, che non hanno nulla di umano; e il pubblico resta pressoché freddo a tutta quella esposizione terribile di sentimento e l’accetta solamente come una cosa dovuta e naturale; ben di rado tutti quei contorcimenti gli strappano l’applauso subitaneo, che erompe presso di noi a una scena di Otello o di Amleto recitata da qualcuno dei nostri migliori artisti.
Il fondamento dunque della drammatica giapponese è vero, ma gli accessori sono falsi ed esagerati. La maniera poi, come gli attori tragici modulano la voce, produce in noi, le prime volte, un’impressione di noia profonda. È una voce gutturale che sale ai toni più alti, tenuti per un bel pezzo fino a che cambiarsi in note cavernose, che scandiscono ogni parola e che finiscono poi in un gorgogliamento durante il quale, anche ai giapponesi, è difficile comprendere bene.
E quella lingua, così dolce nel parlar comune e nella lettura, diventa sulla scena aspra, con una pronuncia dura, affettata e sgradevole ai nostri orecchi. Questi sono i caratteri principali della recitazione giapponese; ma vi son pure altri particolari strani di questo lato della vita indigena che non la cedono agli altri per l’originalità di usi, che tendono a conservarsi fra lo sfacelo attuale di tutto ciò che è antico.
Fonte: Estratto tratto dal libro Arte, Teatro e Religione nell’Antico Giappone scritto da Giovanni De Riseis ed edito da Luni Editrice.
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