
Questa nuova esperienza venne per millenni trasmessa da maestro a discepolo formando così le prime antichissime basi di quello che oggi noi chiamiamo Zen. Dopo millenni di trasmissione di questa sapienza nella sola India, il monaco Bodhidharma, conoscitore di tale esperienza, portò questo insegnamento in Cina, nel V secolo d.C. dove, quello che in sanscrito era Dhyana, in cinese divenne Ch’an. In Cina la disciplina Ch’an trovò terreno fertile per la sua diffusione e trovò moltissimi seguaci che da maestro a discepolo tramandarono questo sapere. Grazie alla Cina il Ch’an raggiunse originalità e purezza. Non si sentì mai parlare di Zen sino a che questa conoscenza non giunse in Giappone. Nel XIII secolo, durante il periodo Kamakura (1185-1333), fu il monaco giapponese Dogen, dopo un lungo soggiorno in Cina, a portare il Ch’an in Giappone.
È importante capire la differenza tra il Dhyana indiano, il Ch’an cinese e lo Zen giapponese. Fondamentalmente la disciplina è la stessa, ma è il modo di applicarla che è diverso: mentre la versione indiana e quella cinese propongono un modo di pensare che prevede la totale astrazione, fuga dal mondo, rinuncia di questo, il completo allontanarsi da tutto ciò che è sociale per rifugiarsi nella propria interiorità, per trovare conforto nella meditazione, il rielaborato Zen giapponese invece propone di mettere questo sapere al servizio della società. Indiani e cinesi cercavano la santità nell’interiorità grazie all’aiuto della meditazione; lo Zen giapponese applicava tale saggezza alla vita quotidiana invitando chiunque al buon sentimento, al comportamento corretto, al sentire corretto.
Grazie a questa nuova rielaborazione, lo Zen ottiene maggiore successo compenetrando tutta la cultura giapponese, forgiando l’onorabilità dei samurai, la gentilezza dei modi e il comportamento con gli altri nella società, le usanze, l’architettura arrivando a influenzare anche la cultura, l’arte, la poesia, la pittura, la calligrafia, la scultura, le arti marziali fino a incidere anche sui costumi, le credenze, il modo di pensare e di comportarsi. Da questo spirito Zen derivano la costante ricerca della perfezione in ogni cosa, la continua aspirazione all’armonia e il perpetuo desiderio di perfezione.
Anche se molto più tardi, è comunque solo dopo l’arrivo dello Zen in Giappone che anche l’Europa cominciò ad interessarsi a questo sapere: infatti nel XX secolo Taisen Deshimaru, discepolo di Kodo Sawaki, portò per la prima volta l’essenza di questo insegnamento in Francia. Gli Europei, che fino ad allora avevano conosciuto questa pratica solo attraverso lo studio e i libri, poterono finalmente applicare al loro stile di vita gli insegnamenti dei maestri Zen. Rimase comunque una cosa praticabile solo dagli intenditori, per il resto continuava a essere qualcosa di ancora lontano e sconosciuto.
Dopo aver vissuto quindici anni a Parigi, il maestro Deshimaru creò un centinaio di Doujo e Zazen facendo accrescere il numero dei suoi discepoli permettendo così la facile diffusione della disciplina Zen. I risultati ci furono: a questa nuova corrente di pensiero si accostarono infatti molti scienziati, artisti e terapeuti di moltissimi paesi d’Europa.
Ma in cosa consiste esattamente la disciplina Zen?
A distanza di millenni, dall’originario Dhyana, al cinese Ch’an sino al giapponese Zen, ciò che rimane invariato di questa disciplina è il Sesshin, il vero e proprio cuore della pratica dello Zen.
Sesshin significa abbandonare ogni pensiero discriminante come piccolo o grande, bene o male, bello o brutto, simpatico o antipatico, significa sedersi in pace dentro sé stessi alla riscoperta della propria interiorità, della propria essenza. Non è isolarsi dal mondo o dagli altri, ma eliminare, sradicare da sé stessi ogni paura, ogni insicurezza o falsità che spesso nella nostra vita ci impediscono di rimanere a contatto con il nostro vero essere.
Sesshin vuol dire non perdersi dietro le forme, non confondersi di fronte ai doveri e non lasciarsi mai ingannare dalle apparenze; invita a essere naturali e vivere ogni istante con naturalezza, in armonia con sé stessi. Vuol dire lasciare spazio e liberarsi, per comprendere le paure e le indecisioni che spesso invece ci portano a limitare il nostro pensiero per colpa delle solite barriere di opinioni, doveri, pregiudizi e credenze.
Il Sesshin è un po’ come sfogliare una cipolla strato dopo strato fino a scoprirne il cuore, l’interiorità; è conoscere noi stessi fino alla parte più profonda; è scoprire, come le facce di un diamante, le tantissime sfaccettature e gli infiniti aspetti della nostra essenza, fatta di emozioni, sentimenti, sensazioni, certezze.