Nei pressi della grande Yeddo, ma lontano dall’agitazione e dal rumore della città, sull’altra sponda della Sumida dalle rive fiancheggiate di ciliegi, nel sobborgo di Hondjo, viveva verso la metà del secolo XVIII un artigiano chiamato Nakajima Ise.
L’uomo, artigiano abilissimo che estese la sua clientela fino ai principi Tokugawa e alla dimora dello Shogun, fabbricava quegli specchi adorni di singolari rilievi che quando li si guarda in una certa maniera riflettono sulla parte levigata come un’efflorescenza immobile infondo a uno stagno. Nakajima allevava un fanciullo del quale non si conoscono le origini, – forse figlio suo o semplicemente adottivo, e il cui vero padre sarebbe stato Kawamura Hiroyemon, noto come artista sotto il nome di Bunsei.
Il piccolo Tokitaro che era nato nel decimo anno dell’era Horeki, crebbe nel tranquillo sobborgo di Hondjo fra saline e orti in mezzo a quella periferia che è subito campagna, all’ombra di quelle case basse ove stanno le botteghe dei piccoli commercianti che si affacciano sulla solitaria pianura, i mestieri e i traffici dei centri agricoli silenziosamente intrecciati nella serenità dei giorni. Nella modestia e nel raccoglimento di questi luoghi trascorsero i primi anni del fanciullo che doveva dar lustro al nome di Hokusai. Pace provinciale, pace di campagna, che restò cara al suo cuore e da cui egli trasse uno pseudonimo al quale resto fedele, il contadino di Katsushika, il distretto di cui fa parte il sobborgo di Hondjo.
I primi volti che si chinarono su di lui furono quelli dei vicini, brava gente di faccia tonda e rugosa, occhi a mandorla, naso largo, che ritroviamo ritratti in un sorriso gioviale e cortese nelle stampe di tanti splendidi libri d’immagini. Costoro, buontemponi ingegnosi e poco o nulla affaccendati, indolenti fumatori di pipa, negozianti e bottegaie, bighelloni di strada, conoscevano le storie giuste per popolare di sogni le notti e i giorni, da quella di Yamauba e Kintoki nella foresta fino a quella di Motomaro, figlio del mare, che, divenuto adulto, acquistò una forza e una prudenza sovrumane e diventò amico di tutti gli animali della terra.
Essi insegnarono a Tokitaro la religione di babbo Hotei, grande e grosso e così buono, il dio dei bambini, che, nei libri ove la sua immagine è dipinta al naturale, fa le capriole per divertire i piccini e si rotola in terra con loro lanciando grida di gioia. Sogni e fantasie della prima infanzia che riaffiorano nell’uomo maturo, mentre rivive il costante ricordo di questa popolarità cordiale, amabile e cortese, maestra di racconti e di meraviglie.
Questo è l’ambiente morale, ricco di candore spirituale, di ironia priva di malizia, così caratteristicamente giapponese, in cui Hokusai visse i suoi primi anni fra uomini che si guadagnavano l’esistenza col lavoro delle proprie mani. Nella bottega del padre, ove ebbe sottomano gli strumenti, gli fu dato di poter assistere ancora bambino alla modellatura e all’impastatura della materia. Era il tempo in cui la fatica dei meravigliosi artigiani giapponesi era ancora fatta di invenzione, di pazienza e di ponderata destrezza.
Vedendo lavorare Nakajima Ise, Hokusai apprese il valore della forza e dell’abilità delle mani dell’operaio. Chinando la sua faccia tonda di ragazzino sui dischi di metallo levigato ove trasparivano riflessi misteriosi, apprese come dietro le apparenze si nascondano strani poteri di suggestione e il fascino di una poesia segreta.
Dalla madre l’artista ereditò e apprese la fierezza. Questa moglie di artigiano apparteneva a una famiglia illustre e decaduta. Il giorno in cui i quarantasette ronin vennero a massacrare il vecchio Kira per vendicare il proprio padrone, suo padre, Kobayashi Hehatchiro, si fece uccidere coraggiosamente a fianco del suo signore. Hokusai amava raccontare agli amici questa storia, divenuta poi leggenda tanto che certi biografi fanno della madre dell’artista la nipote diretta di Kira.
Nella casa dei genitori il fanciullo imparò a conoscere e a venerare fin dalla prima infanzia l’esempio del vassallo fedele. Egli restava uomo del popolo, amava i compagni della sua giovinezza e di tutta la sua vita, – ma i ricordi eroici che aveva imparato ad amare teneramente fortificavano in lui l’indipendenza di carattere, ne spiegano il cavalleresco disprezzo del danaro, e quanto di nobile vi è nella miseria rassegnata della sua lunga vecchiaia.
Tokitaro aveva dei fratelli e non era costretto, secondo il costume giapponese riguardante i figli unici, a succedere al padre. Così poté scegliersi un mestiere. La scoperta della sua vocazione artistica sarebbe avvenuta in un gabinetto di lettura dove si dice che sia stato, da ragazzo, per qualche tempo impiegato. Sfogliando alcune opere illustrate, Tokitaro si sarebbe sentito chiamato a diventare disegnatore. L’immensa produzione romanzesca del Giappone, inesauribile sin dall’illustre Genzi-Monogatari, offriva allora ai maestri della scuola volgare mille e una occasione di fantasie eroiche, sentimentali o familiari.
L’irruzione di guerrieri, le mischie epiche del vecchio Giappone, la barbara complessità degli intrighi feudali, i drammi d’amore e i convegni galanti si succedevano lungo l’interminabile serie dei sottili quaderni. Ogni opera occupava da sola a malapena un intero scaffale di armadio, ogni nuova illustrazione di un libro antico, che apportava al testo originario la personalità di un interprete che spesso era un maestro, produceva un nuovo romanzo.
Un mondo, un universo variopinto, appassionante, dove i ronin vendicatori stanno gomito a gomito con i pescivendoli, dove la confusione divertente di un mercato succede a una scena di esercizi militari nel cortile di una fortezza, dove i tangu, sorta di semidei balordi e burloni, piccolissimi ma provvisti di un naso lungo più di un metro, cadono dalla luna nel bel mezzo delle conversazioni più delicatamente mondane.
C’è « il mondo sciocco di quaggiù», c’è quello delle apparizioni e dei mostri, ci sono i dialoghi stupefacenti di certi adolescenti, – quasi dei ragazzetti, – che speculano sulle loro amanti con una leggerezza, una profondità e una conoscenza della donna da cui i nostri psicologi potrebbero trarre profitto. Testi comici, eleganti o stravaganti, scritti perlopiù in un’epoca in cui l’Occidente andava elaborando la Cantilena di Santa Eulalia o la Vita di Sant’Alessio. Un meraviglioso intreccio delle storie più belle e più antiche, rinnovate dalla fantasia immortale dei maestri dell’Ukiyo-e.
Niente di più naturale dell’entusiasmo di un fanciullo in mezzo a tutte queste singolari e affascinanti finzioni. Niente di più frequente della vocazione di un artista suscitata da un album di stampe o da illustrazioni romanzesche a un’età in cui la freschezza dell’immaginazione se ne appropria e le completa con un eccezionale vigore. Piace rappresentarsi la giovinezza di Hokusai assorbita da appassionate fantasticherie, nel bel mezzo di quelle figurazioni innumerevoli e diverse, di quell’arsenale di forme e soggetti che stavano per insegnargli a guardare l’universo.
Fonte: Estratto tratto dal libro Hokusai – Henri Focillon
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