Il Pino è uno degli elementi più rappresentati nell’arte giapponese di tutte le epoche: albero sempreverde rappresenta longevità, la buona fortuna e lealtà. Nell’arte, il pino è associato spesso con l’inverno, il nuovo anno, la longevità ed a volte anche l’immortalità.
Carlo Cipollini, nato a Camaiore nel 1954, dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze, inizia a ricercare spazi e volumi cromatici, le radici dell’antica cultura del bonsai e dell’ebanisteria per oltre trent’anni; la saldatura tra le forme e le culture, tra piombi, rame e ossidi. Professore di discipline pittoriche presso Liceo Artistico Statale di Lucca dal 1974 al 2016. Al Murabilia Lucca 2019 espone le sue opere, bellissime iconografie con a tema proprio il Pino che lui descrive così:
Il Percorso intrapreso nel “fare bonsai” non mi ha ancora appagato del tutto e tante sono le modalità, le sfaccettature, le ricerche che lo studio dell’arte del bonsai a tutt’oggi offre. Una delle tante opportunità di approfondimento che il confronto con le arti orientali ci offre è la pittura.
L’arte giapponese incontra e influenza l’arte occidentale a partire dalle opere esposte a Parigi nel 1867. Molti artisti si confrontarono sul piano della rappresentazione compositiva: ad esempio Degas, con composizioni strutturate sulle diagonali, Van Gogh con paesaggi tipici giapponesi ambientati in Francia.
Monet non avrebbe usato tagli compositivi così particolari, non si sarebbe impegnato in quella lunga meditazione pittorica, oltre venticinque anni della sua vita, a rappresentare ninfee con uno spirito operativo conducibile facilmente a concetti Zen, senza uno studio comparato sull’arte giapponese.
Anche l’arte moderna e contemporanea si è confrontata con la concezione artistica dell’Estremo Oriente, vedi “Gesto/Segno/Macchia” (calligrafia shoudo).
Ammettere che noi occidentali, abituati da secoli alla profusione di ricchezza italiana, fiamminga, bizantina o barocca, che la perfezione pittorica è raggiunta “meno”, non è facile. La pittura del “meno” è la riduzione dell’essenziale, raggiunto e fissato attraverso una serie di operazioni psichiche e di gesti precisi, ognuno dei quali sottintende un modo di esistere e un comportamento morale.
L’”essenziale” astratto del tempo e dello spazio significa niente fondo, niente effetti di luce, niente prospettiva illusoria, ciò vuol dire l’esaltazione del particolare, il granello di sabbia che contiene un mondo intero. Quello che ci è più difficile accettare nella pittura giapponese è forse il suo carattere d’improvvisazione e d’incompiutezza; i pittori ci danno l’impressione di aver avuto un solo “maestro”: il gatto, e come lui di non trovarsi mai in errore. Agilità, sveltezza, sorpresa e rapidità sono le sue formidabili caratteristiche.
Non sta al pittore portare a compimento la sua opera, ma allo spettatore, ecco perché gli spazi vuoti sapientemente dosati. In Giappone, quello dello spettatore è uno sguardo capace di cogliere il movimento interno dell’opera per poterlo prolungare in qualche modo.
Noi occidentali percepiamo la pittura giapponese come del tutto compiuta, come se fosse rimasta in sospeso in attesa di eventi. Una possibile pausa, una pausa quasi musicale: è musica viva, la pittura giapponese, che l’occhio deve ascoltare.
Fonte: Estratto dalla didascalia descrittiva presente alla mostra Murabilia Lucca 2019
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