Quello di usare due letture per leggere i kanji non fu l’unico compromesso che i giapponesi fecero per usare gli ideogrammi cinesi pur mantenendo la fonetica autoctona giapponese.
Scrivere con i caratteri cinesi comportava avere poi delle frasi e dei periodi davvero lunghi, composti spesso da caratteri complessi ed elaborati per rappresentare però solo singoli fonemi; ciò rendeva la lettura, ma ancor di più la scrittura, troppo complessa ed era richiesto troppo tempo sia per leggere che per comprendere. Come soluzione a questo problema allora, furono sviluppati i due sillabari che conosciamo: Hiragana e Katakana.
Studiando il giapponese abbiamo imparato a distinguere i kana di un sillabario da i kana di un altro sillabario: l’Hiragana ha i simboli più corsivati, semplici e curvilinei, nati dalla semplificazione di un kanji cinese complesso. Per contro invece, il Katakana presenta dei simboli più rigidi e spigolosi, nati prendendo in prestito elementi o parti di ideogrammi cinesi.
La parola Kana (presente sia nella parola Hiragana che nella parola Katakana) è scritta con il kanji di Ka 仮, contrazione di Kari che significa Temporaneo e Na 名 che vuol dire Nome, Segno; il termine Kana dunque significa Nome/Segno Temporaneo.
Hira in Hiragana significa Semplice mentre Kata in Katakana significa Parte di, Incompleto. Possiamo dedurre allora che Hiragana significa Segno/Nome Temporaneo Semplice, mentre Katakana vuol dire Segno/Nome Provvisorio Incompleto o Prestato in quanto preso a una “parte di” un kanji. Per differenziare i kanji da questi due nuovi sistemi di scrittura, i kanji vennero chiamati Mana (Nome/Segno Reale).
Fonti datate al periodo Heian definiscono l’Hiragana come Onna-de (per mano di donna) mentre i kanji come Otoko-de (per mano d’uomo). Questo perché inizialmente i kana dell’hiragana erano l’unica forma di scrittura consentita alle donne per i loro scritti mentre i kanji invece, vietati alle donne, erano una prerogativa tutta maschile.
Questo iniziale “svantaggio” femminile però, anche se discriminante all’epoca, permise al Giappone nel tempo di poter annoverare le opere femminili come le uniche di tradizione puramente giapponese: basti pensare alla scrittrice Murasaki Shikibu, autrice del famoso testo Genji Monogatari oppure l’opera Tosa Nikki, un diario di viaggio scritto nel 935 da Ki no Tsurayuki.
Tale divieto nell’uso dei kanji da parte delle donne venne fortunatamente superato con il tempo per ovvie necessità di comprensione: gli uomini avevano bisogno di semplificare i loro testi e renderli chiari nei modi e tempi delle parole mentre le donne avevano bisogno di fare maggiore chiarezza nelle parole data la vasta quantità di omofoni. Gli uomini così iniziarono a inserire i kana nei loro documenti e alle donne fu concesso l’uso di qualche kanji.
Quanto invece al katakana, che inizialmente era stato concepito come un sistema di scrittura per annotazioni su testi già scritti in cinese per renderli in giapponese e capirli meglio, veniva usato solo dagli uomini e dal clero. Poiché però il katakana, a differenza dell’hiragana, non veniva usato per scrivere testi ma solo per annotare su documenti già esistenti, esistono pochi esempi di scritture antiche in katakana rispetto all’altro sillabario che, come abbiamo detto, può vantare intere opere.
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