Ryogoku, quartiere di Tokyo affacciato sul fiume Sumida, è la capitale del sumo. Se ci si sbriga, racconta Laura Imai Messina in “Tokyo tutto l’anno”, verso le 7 del mattino è possibile entrare nelle speciali residenze dei lottatori, le sumo-beya, per assistere agli allenamenti. Basta entrare in silenzio, non bere, non masticare, non fare foto col flash; questi uomini dai corpi immensi sono venerati come dei, è un privilegio vederli afferrarsi per il perizoma e far volare l’avversario come una busta di noccioline.
Nel cuore del quartiere, tra negozietti d i gadget a tema e statue dei campioni, c’è un grande edificio che pare un tempio ma è il Kokugikan, lo stadio del sumo. Affascinante sopra e anche sotto, dove entrano solo gli addetti ai lavori. Tecnici sportivi? Non proprio.
Nei sotterranei, le spiega a un certo punto suo marito Ryosuke, si estende la più grande azienda di yakitori dell’intero Giappone. “Resto senza parole. Sotto lo stadio del sumo un’azienda che produce spiedini di pollo. Ma veramente?”. Altroché, e la spiegazione è anche più surreale: “Il pollo è ritenuto animale di buon auspicio in quanto rimane stabile su due zampe. Esattamente quanto si augura a ogni lottatore di sumo che vince rimanendo ritto sulle gambe dall’inizio alla fine dell’incontro”.
Tutto a Tokyo può essere strano, alieno, e comunque plausibile e familiare; come due corpi estranei che per una misteriosa legge della fisica occupano in armonia lo stesso spazio. “Il fatto è che qui non c’è stato l’Illuminismo” riflette al telefono l’autrice, che ha 37 anni e ne aveva solo 22 quando ha lasciato Roma con una grande valigia rosso ciliegia per passare un po’ di tempo in Giappone; non è mai ripartita, e nel frattempo si è sposata con un giapponese, ha avuto due bambini, Claudio Sosuke ed Emilio Kosuke, è diventata docente universitaria di lingua italiana, ha lanciato il blog Giappone Mon Amour, scritto diversi romanzi (Tokyo orizzontale, Non oso dire la gioia, Quel che affidiamo al vento).
E ora questa guida che non è una guida ma un “viaggio sentimentale” e “un autobiografia in forma di città”, o forse è il caso di dire megalopoli, visti i 36 milioni di abitandi con cui la condivide.
Storia di un’elefantessa
Qui l’Illuminismo non è mai arrivato, in compenso “lo shintoismo penetra profondamente la cultura e la quotidianità, come una sorta di resistenza sotterranea che scorre placida”. Fino a un certo punto.
Lei stessa ricorda di essere rimasta colpita dagli scandali recenti legati al bullismo nel mondo del sumo, “una sorta di nonnismo che ha iniziato a mostrare piccole e grandi crepe a partire dal terribile incidente del 2007, in cui perse la vita un ragazzo, fino al caso più recente del 2017, quando un giovane lottatore venne brutalmente picchiato in un bar dal campione Harumafuji Kohei”.
Ma anche le cose più tristi non riescono a non sapere di poesia, come una storia di Miyazaki. Verso la fine, Imai Messina indugia sui lussuosi magazzini Takashimaya e una foto in bianco e nero che mostra un elefante sul tetto dell’edificio nel 1950. Si chiamava Takako. Lo fa pensare, dice, a un racconto di Yoko Ogawa, con la storia simile dell’elefantessa Indira, portata sul tetto del grande magazzino per divertire i bambini; visto il successo, avevano indugiato troppo a riportarla giù, lei nel frattempo era cresciuta e non entrava più nell’ascensore; fu costretta a restare in terrazza per 37 anni, fino alla sua morte.
Scandito dal trascorrere dei 12 mesi, uno per ogni capitolo, Tokyo tutto l’anno è impreziosito dalle tavole disegnate da Igort, fumettista che Tokyo la frequenta (e vi pubblica) da ormai trent’anni. “Ricordo esattamente in quale punto della nostra casa ero quando mi hanno detto al telefono che avrei lavorato con Igort, ero così emozionata”.
Il primo passo per lei è stato scoprire la lingua, che “è come l’amore, dà dipendenza”. Ha studiato giapponese all’Università, il viaggio a Tokyo era il suo regalo di laurea. Appena arrivata, ricorda, “la città per me erano le discoteche, il bus che ti portava in giro la notte, il ramen alle 5 del mattino, gli ubriachi nelle stazioni…
Da quando ho avuto i figli queste cose non le vedo più, come se non ci fossero. Vedo altro. Ora è il numero incommensurabile di treni che prende per andare in giro con i piccoli; le rotaie che si innalzano e si allargano “fluttuando tra i palazzi attraversando stazioni sopraelevate per scendere poi fin sottoterra”. Alla stazione di Ochanomizu, Imai Messina consiglia di uscire da hijiri-bashi-guchi, voltare a sinistra e buttarsi in basso seguendo i binari, fino ad arrivare “alla Città Elettrica di Akihabara, passando per il sottoponte in mattoni rossi che ospita un particolare caffè, celebre perché posto nel bel mezzo delle rotaie”…
Usato fino al 1943 come stazione, questo edificio è stato riaperto nel 2013, e riempito di ristoranti e negozi. L’ennesima dimostrazione di come dello spazio Tokyo faccia sistematicamente scarpetta.
Minibirrerie e Musei Assurdi
La città, dice Imai Messina, è “una continua disgressione. Nodi di strade da cui non ti aspetteresti nulla nascondono assurdi piccoli musei. Mi avessero detto che un giorno mi sarei divertita a visitare il Museo del salmone…”.
L’elenco è cospicuo: nella ricca zona di Setagay c’è il museo delle palle di vetro con neve, a Kikukawa quello che raccoglie biglietti da visita, poi quello dei farmaci, delle chiavi da cassaforte… . “E su Meguro-dori, a dodici minuti a piedi dall’uscita ovest della stazione, c’è un’esposizione permanente unica al mondo: il museo dei parassiti”. Qui insomma, si scopre la Tokyo degli interstizi; birrerie grandi come una cabina del telefono che richiamano il ristorantino metafisico – un po’ Murakami e un po’ Jim Jarmush – della serie Netflix Midnight Diner, uffici postali dove puoi spedire lettere che verranno consegnate dopo un anno; i ciliegi in fiore fuori dalle rotte turistiche (segnatevi quelli intorno alla stazione di Takaido); lo shopping vintage a Koenji che è un po’ il Pigneto giapponese, culla della cultura underground, “tagliato su misura per gente che preferisce mettersi al riparo in quella conca di dimenticanza che è l’essere volontariamente in ritardo, il mantenersi un passo indietro per guardarsi intorno”.
Esercizio non semplice in una città che a Imai Messina ricorda “quei pesci che non possono smettere di muoversi, altrimenti muoiono. Così anche Tokyo non fa che buttare giù e ricostruire. Noi preserviamo, loro rifanno da zero; perché ciò che va tramandato non è l’oggetto in sé, ma l’idea”.
Se trovate una gelateria che vi piace, non affezionatevi troppo. “Sono rimasta sconvolta quando ho scoperto che i luoghi del mio primo romanzo, Tokyo orizzontale, erano completamente spariti nell’arco di due-tre anni. Via la discoteca, il ristorante con l’elefante all’ingresso. Ne parlavo l’altro giorno con la signora del konbini, il mini market vicino casa. A me da italiana prende quasi l’ansia: finalmente trovo il posto dove fanno i miei dolcini alla pesca preferiti, e in un mese non c’è più? “Goditelo finché c’è” mi ha risposto lei “poi ne arriverà un altro”.
Tokyo è così. Noi che non riusciamo ad accettare che le cose cambino, lì impariamo che tornare nei luoghi non elimina i ricordi ma ne crea di nuovi; la memoria non si perde, si irrobustisce”.
Fonte: Articolo scritto da Alba Solaro per Il Venerdì di Repubblica del 4 Settembre 2020
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