La stampa ha in Cina e in Giappone origini molto antiche: essa era infatti conosciuta fin dall’VIII secolo, quando si riproducevano testi e immagini di ambito buddhista utili a propagare la dottrina.
In Giappone la grande diffusione si ebbe però a partire dalla prima metà del XVII secolo, durante il periodo Tokugawa (1603-1868). La riproduzione in serie assecondò gli sviluppi dell’editoria e l’evoluzione di un nuovo genere artistico, l’ukiyo-e, le cui opere erano destinate a un pubblico vasto e popolare.
Inizialmente i fogli venivano stampat solo in nero per le linee di contorno e i particolari, con l’ausilio di un’unica matrice in legno di ciliegio. Il blocco riproduceva il disegno originale dell’artista ricopiato su un foglio di carta sottile e semitrasparente (hanshita): per la riproduzione finale si utilizzava un tampone (baren) strofinato sulla matrice inchiostrata.
Verso il 1660 si cominciò a diffondere l’uso di applicare a mano alcuni colori tenui sui fogli stampati, mentre solo a partire dalla metà del XVIII secolo si prepararono matrici diverse da quella per il nero, ognuna riservata a un particolare colore.
La piena policromia si fa risalire tradizionalmente a Suzuki Harunobu che la sperimentò con successo verso il 1765. Tali stampe policrome assunsero il suggestivo nome di nishiki-e (“stampe a broccato”) in riferimento alla ricchezza cromatica dei tessuti.
La carta utilizzata per le stampe popolari era di solito fatta a mano con fibra di gelso, trattata preventivamente con un’imprimitura di allume e colla animali diluiti in acqua tiepida. I colori erano in gran parte di origine vegetale e solo in alcuni casi erano di origine minerale.
Intorno al 1820 giunse in Giappone dall’Europa il colore blu di Prussia, denominato dai nipponici berorinai, “blu di Berlino”. Una novità che non mancò di entusiasmare Hokusai e i suoi editori, se per le prime impressioni delle sue celebri composizioni paesaggistiche degli anni Trenta si scelse il blu quale unico tono della colorazione.
Riguardo ai formati dei fogli, essi eran variegati, dal formato “piccolo” (kouban, cm 21×13 circa), “medio” (chuuban, cm 28×18 circa) e “grande” (ouban, cm 38×25 circa), a quelli più particolari (hashirae, “stampa a pilastro”, cm 70×15 circa; hosoban, “formato stretto“, cm 33×15 circa; shikishiban, “formato quadrato”, cm 19×18 circa), mentre per i surimono, di destinazione privata, si potevano scegliere formati non convenzionali, secondo i voleri del cliente.
Rispetto alla pittura, la stampa in serie prevedeva perciò la stretta collaborazione tra diverse persone: l’artista, l’incisore e l’editore.
Sappiamo che Hokusai trascorse un periodo della sua adolescenza presso la bottega di un incisore. Sarà forse per questo che, più delle volte nel corso della sua lunga carriera, si premurò di dare indicazioni precise all’incisore delle sue opere, perché con le sgorbie non snaturasse la sua originaria intenzione.
Molto stretti furono anche i rapporti intrattenuti con gli editori, ai quali Hokusai spesso scrisse per dare indicazioni tecniche, chiedere consiglio o proporre le proprie opere per la pubblicazione.
Tratto dal libro Hokusai (La grande biblioteca dell’arte) – Collana Giunti
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