I luoghi ideali per stabilire un rapporto armonico tra il mondo dell’uomo e quello della natura?
Per i giapponesi sono i giardini. Raffinati, intessuti di rigore stilistico e di rimandi simbolici, ma anche diversi l’uno dall’altro. Il modello cui si è fatto riferimento nel corso dei secoli è infatti tutt’altro che statico e può essere visto come un continuum ai cui estremi si trovano il sacro e il profano, il secco e l’umido, spazi ristretti e superfici da calcolare a ettari.
In questo è percepibile anche un’evoluzione storica che gradualmente ha portato a trascurare le funzioni, e quindi l’organizzazione dello spazio, più in linea con austerità e sacralità, mentre si è scelto di privilegiare il piacere in tutte le sfumature, fino a farne, dal XVII secolo in poi, la ragion d’essere del giardino tradizionale.
Ma c’è dell’altro, nel periodo Tokugawa, tra Seicento e Ottocento, spiega l’esperto David Young, furono costruite grandi residenze per i membri della famiglia imperiale, gli aristocratici e i capi militari, i daimyo.
Nulla a che vedere con le ville rinascimentali italiane, ma pur sempre costruzioni ariose, al di fuori delle aree fortificate. Un giardino divenne l’indispensabile complemento dell’abitazione. E si ingrandì anche, contraddicendo uno dei principi estetici della cultura giapponese, che si compiace del minimalismo. Diventò anche un mezzo per ostentare ricchezza e potere ai visitatori, fossero amici o antagonisti.
Tre giardini di questo tipo, a Okayama, Kanazawa e Mito sono stati definiti, all’inizio dell’era Meiji, i più belli del Paese, perché rispondevano al gusto e alle specificità sociali del tempo (ultimi decenni del XIX secolo).
Oggi in Giappone sono innumerevoli i giardini altrettanto curati, affascinanti, rispondenti ai più sofisticati canoni stilistici. Ma i “tre più belli” sono veramente tali se ci si riferisce all’estetismo puro, senza sottintesi metafisici. Concepiti per essere ammirati e per passeggiarvi rilassandosi. In questo rasentano la perfezione. Il godimento è il loro motto e il loro scopo.
Quello di Okayama si chiama Korakuen, che significa “giardino per ottenere piacere più tardi”. Intorno al Seicento lo battezzò così Ikeda Tsunamasa, daimyo locale, non per una stravaganza pruriginosa, ma con riferimento alla massima cinese cui chi ha il potere, se vuole meritarlo, “è il primo ad angustiarsi e l’ultimo a gioire”.
Il Kenrokuen di Kanazawa è invece “il giardino delle sei qualità”. Questo nome, da un antico testo cinese, sta a significare che esso racchiude tutti i possibili elementi di “sublime bellezza”, cioè ubicazione appartata, ampiezza, artificiosità, corrispondenza ad antichi esempi, abbondanza d’acqua e vastità di panorami.
Infine il Kairakuen di Mito, città a un’ora di treno da Tokyo, è il giardino del godimento in comune, un appellativo che introduce alla modernità. Pur costituendo come gli altri il contorno della villa del signore, è più recente del Korakuen e del Kenrokuen ed è stato concepito come parco pubblico: non solo i notabili, ma anche il popolo (in primo luogo i chonin, cioè i borghesi che si stavano avvicinando al potere) andavano conquistati offrendo loro bellezza e svago.
Tratto dalla rivista Meridiani – Giappone (Anno XXIV – N.195)
*** Se trovi gli articoli, le traduzioni e le recensioni di questo sito utili, per favore sostienilo con una donazione. Grazie! ***