Esiste un doppio mito sull’origine di questa bellissima parola.
Il più inverosimile dei due è quello che suggerisce una provenienza portoghese della parola: arigatou deriverebbe da “obrigado” (che come arigatou vuol dire “grazie”, ovviamente, ma in portoghese). La teoria è priva di fondamento per il semplice fatto che arigatou era già in uso prima dell’arrivo dei portoghesi in Giappone (1549 d.C.).
Il secondo mito deriva da un’erronea lettura dei kanji: 有り難う (di solito è in kana, ありがとう). La parola arigatou è un avverbio (classico) che deriva dall’aggettivo in -i “arigatai” (riferito a qualcosa di cui esser grato). L’idea di fondo è che, poiché si tratta dell’unione del verbo “aru”, avere, e dell’aggettivo “katai”, (esser) difficile, l’espressione sia un’espressione di rammarico: (con questo suo gesto) ho un debito che è difficile avere (e quindi sopportare). Ammettiamolo, per quanto plausibile non pare affatto un’espressione di gratitudine. Difatti la realtà è un’altra.
Il termine arigatou si trova già in uno dei più antichi libri giapponesi della storia, il 枕草子Makura no sōshi (Gli scritti del cuscino), che tratta di eventi di corte e raccoglie le opinioni su di essi, nonché il libero pensiero di Sei Shōnagon, la dama di corte che lo scrisse, terminandolo nell’anno 1002 d.C.
Non solo! Arigatou è presente anche nel 源氏物語 Genji monogatari (La storia di Genji). Noto come “il primo romanzo della storia”, fu terminato nel 1021 d.C. da Murasaki Shikibu (“shikibu” è un titolo onorifico, traducibile come “Dama” o “Lady”, mentre Murasaki è un nome d’arte: si pensa che il vero nome dell’autrice sia Takako Fujiwara).
Perché citare entrambi i testi e non solo il più antico? Perché i due termini vengono usati in modo leggermente diverso. Prima cosa importante da dire, entrambi fanno ampio uso dell’hiragana (anche detta onna no te, e vista come la “scrittura delle donne”) ad arigatou compare difatti in kana. Essendo in kana si perde la sfumatura di possesso, probabilmente attribuita dopo in base al significato.
Nel Makura no Soushi infatti il termine indica qualcosa di raro, che è raro incontrare (aru indica anche esistenza, quindi arigatai implica che è difficile che esista il qualcosa cui si riferisce). Da ciò si deduce che si tratta di qualcosa di prezioso (poiché raro) e quindi di qualcosa che è raro avere (e lo dico per provare a spiegare l’uso del kanji di 有る, avere, ma in realtà non è necessario, poiché 有 può comunque avere di suo una sfumatura di senso legata all’esistenza, visto che 有りそうな , arisou na, significa “probabile” o, letteralmente, “che può esistere”).
Nel Genji Monogatari invece si trova arigataku con associata l’idea di una difficoltà di vivere (di esistere, a questo mondo). Comunque torna il concetto di “difficile esistenza”.
Fermandoci all’idea di qualcosa di raro (e prezioso), che prendiamo dal Makura no Soushi, è facile capire che ciò che è “arigatai” è qualcosa di difficile da sorvolare o ignorare. Dunque possiamo dire che nel dire “grazie”, anzi “arigatou” indichiamo come il favore o la gentilezza ricevuta è qualcosa di raro e prezioso, che non possiamo ignorare.
Insomma, certamente una spiegazione “più positiva” di quella comune del “rammarico” vista all’inizio… anche se bisogna esser sinceri, quando “sumimasen” è usato per dire grazie invece di “scusa” (sì, capita spesso… non ve lo aspettavate?), quel che stiamo facendo è proprio esprimere un rammarico ma, come se avessimo noi “fatto un torto”, non certo un “rammarico per aver contratto un debito”, che francamente è qualcosa che per nulla assomiglia alla gratitudine.
Articolo tratto dal sito Studiare Giapponese e gentilmente condiviso con noi da Kazeatari
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