Che ci sia tra i giapponesi una certa forma di discriminazione etnica e sociale è cosa assai nota. I giapponesi sono sempre stati per tradizione incapaci di accettare altri gruppi etnici nella loro “cerchia” e trattarli allo stesso modo con cui trattano un altro giapponese; anche un giapponese che sembra o si comporta in modo differente o fuori dal “solito schema” non viene sempre accettato.
Finché uno straniero è un ospite, che questo si trovi a casa, in un hotel, in un luogo di lavoro o in un qualsiasi altro posto del paese, i giapponesi sono talmente amichevoli e ospitali che spesso possono risultare anche invadenti per lo straniero che non è abituato a tale cortesia.
Una volta però che lo straniero diventa qualcosa di più di un semplice “ospite”, l’attitudine del giapponese cambia radicalmente diventando distante, cauto, a tratti insensibile o riluttante.
Questa “automatica reazione discriminatoria” del giapponese in parte deriva senza dubbio dal loro “lungo isolamento” dal resto del mondo. Ma ancor più di questo, credo, che derivi dalla tradizionale immagine che hanno sempre avuto di loro stessi come di “unici” al mondo e anche dal loro essere assolutamente omogenei.
In altre parole, chiunque non sia nato e cresciuto come “puro” giapponese, o che non sembra o si comporta come tale, non può pienamente essere giapponese, nè socialmente nè legamente parlando. Ad esempio ci sono diverse centinaia di migliaia di persone che discendono da antenati coreani e che sono nati e cresciuti in Giappone, nell’aspetto sembrano giapponesi a tutti gli effetti, parlano fluentemente giapponese e si comportano come giapponesi, eppure sono ancora considerati come stranieri sia etnicamente che anche in senso legale e sociale.
Una situazione abbastanza simile la possiamo ritrovare negli Stati Uniti che hanno emarginato i discendenti di inglesi, irlandesi o tedeschi che sono immigrati negli Stati Uniti negli ultimi 100 anni. Sino a oggi, ogni giapponese che vive/collabora/è associato a stranieri oltre un certo determinato periodo di tempo o che vive all’estero abbastanza a lungo da “prendere” modi o attitudini tipicamente “non giapponesi” è facile che venga etichettato come Gaijin Kusai, ovvero come uno che “sa di straniero” e come gli altri stranieri viene allo stesso modo trattato.
L’origine dell’espressione Gaijin Kusai è interessante. Quando verso la metà del 1500 arrivarono in Giappone per la prima volta stranieri che mangiavano carne e burro, il loro odore era talmente forte e così sgradevole ai giapponesi che la loro prolungata presenza li ha fatti quasi ammalare. E poi sin dall’inizio gli stranieri in Giappone erano soliti essere riconoscenti per il loro odore distintivo.
Come conseguenza di ciò ogni cosa che i giapponesi etichettavano come “straniero”, inclusi i modi, le attitudini e i prodotti, venivano definiti “bata-kusai” cioè come cose “che sanno di burro”, o come… gaijin kusai appunto.
Questa “tendenza a discriminare” di un giapponese è cresciuta sino a diventare quasi una fissazione, in particolar modo nel periodo in cui le forze armate durante il 1930 hanno proibito l’uso dell’inglese. Parole che derivavano dall’inglese sono state “purificate” e il sistema Hepburn per la romanizzazione del giapponese è stato abbandonato in favore di un sistema tutto giapponese, il Nihon Shiki, che spesso però risultava del tutto incomprensibile per gli stranieri.
Tutti gli stranieri in Giappone sono stati trattati con estrema diffidenza all’epoca. La successiva sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione militare del paese di diverse centinaia di migliaia di americani, truppe alleate e civili, l’influsso di migliaia di residenti stranieri diplomatici e commerciali, e dal 1964 in poi anche una partenza di massa di turisti giapponesi alla scoperta del mondo estero, il sempre crescente numero di uomini d’affari che sempre all’estero si spostavano come le loro famiglie e altrettanto crescente numero di studenti che andavano a studiare in altri paesi, non è bastato a superare la mentalità del Gaijin Kusai.
Fino a oggi uno dei maggiori problemi sociali in Giappone, è l’abuso mentale inflitto ai bambini, che hanno vissuto e studiato all’estero, dai loro compagni di scuola e spesso anche dai loro insegnanti.
Così come spesso ci sono pregiudizi su razze o religioni un pò ovunque nel mondo, così in Giappone i sentimenti “antistranieri” sono talmente ben radicati nella psiche delle persone che, sfortunatamente, ci vorranno sicuramente molte generazioni prima che finalmente questi sentimenti non siano più un problema.
Nel frattempo, possiamo però dire che ci sono centinaia di migliaia di altri giapponesi che sono stati cresciuti senza alcun sentimento ostile nei confronti degli stranieri o che hanno del tutto superato qualsiasi pregiudizio che hanno potuto ereditare e per fortuna il loro numero è in continuo aumento.
Traduzione: Sakura Miko
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