La modernizzazione in Giappone fu sospinta dal coinvolgimento della nazione nell’ambito dell’economia mondiale e delle relazioni internazionali negli ultimi decenni del XIX secolo sino alla fine del periodo Meiji (1868-1912).
Dal 1870 all’inizio della prima guerra mondiale il mondo occidentale, dominato dalle nazioni europee, è stato testimone delle più significative istanze di progresso. Lo sviluppo delle scienze e della tecnologia ed il contemporaneo manifestarsi di una disseminazione di ideali rivoluzionari mai rivelatisi in precedenza per intensità, costituirono il panorama economico, politico e culturale sul quale il Giappone, per motivi endogeni (legati all’ammirazione per la cultura e la supremazia dell’Europa e determinati dalla necessità di riprendere negoziazioni commerciali e modificare il contenuto dei trattati vessatori), e per necessità esogene (quali la spinta delle grandi potenze occidentali affinché il Giappone si munisse di un sistema giuridico, politico e sociale “moderno”), cominciò ad affacciarsi nel contesto internazionale al fine di potersi confrontare con le più influenti potenze europee su di un piano paritario.
Se da un lato il Giappone dell’epoca Meiji fu espressione di nazionalismo e imperialismo, dall’altro lato fu permeabile a molte delle manifestazioni culturali europee, al socialismo, al sindacalismo, al pensiero anarchico, e persino al femminismo.
Tale attrazione verso l’occidente non si riferì però alla religione praticata in Europa, malgrado l’avvento di missionari che tentarono una, almeno parziale, opera di cristianizzazione.
Il Giappone che si è teso verso l’Europa, ma anche un Giappone differente dall’Europa e che rimaneva intrinsecamente radicato alla cultura dell’Asia Orientale. Tale ambivalenza determinò due differenti punti di vista nel processo di valutazione della modernizzazione in Giappone: quello dei Giapponesi e quello degli europei.
Se il Giappone poteva dare l’impressione di apparire “ossessionato” dall’Europa, l’Europa, salvo in occasione di alcuni rilevanti eventi di carattere bellico, non riteneva il Giappone una priorità.
Il desiderio di emulazione della superiorità occidentale fu particolarmente sentito nei decenni dal 1870 al 1890. Quasi tutta l’Asia, ed eccezione della Thailandia e della Cina, era stata colonizzata dalle potenze europee, e la stessa Cina, subiva pressioni commerciali occidentali.
Dal 1890 il fervore nei confronti dell’occidente si affievolì, probabilmente a causa di una composita serie di fattori, tra i quali: i primi successi economici e militari giapponesi; il cosiddetto Triplice Intervento del 1895, nel quale la Russia, la Germania e la Francia si opposero al Giappone per privarlo dei frutti della vittoria ottenuta nel medesimo anno contro la Cina; la revisione di alcune clausole dei trattati commerciali vessatori che il Giappone era stato indotto a stipulare con le potenze occidentali a partire dagli anni ’50 (con particolare riferimento all’abolizione dell’iniqua clausola dell’extraterritorialità).
Un ulteriore fattore da non sottovalutare fu la diffusione nel mondo occidentale, e non solo, delle teorie riguardanti la razza umana. In Europa le pubblicazioni sul tema determinarono la nascita di un sentimento paternalistico nei confronti del popolo giapponese.
Laddove in Europa era stata elaborata una base teorico-filosofica a supporto delle teorie razziali, in Giappone si propagava, soprattutto tramite missionari e laici, l’intervento educativo nel tentativo di elevare il livello culturale della popolazione.
Il predetto atteggiamento da parte degli europei si manifestava prevalentemente nei confronti dei Paesi con un basso grado di sviluppo. Nascevano invece i timori nel momento in cui tali nazioni cominciavano a raccogliere i primi successi in campo economico ed internazionale. Il Triplice Intervento, di cui abbiamo già fatto cenno, è probabilmente da interpretarsi in questa logica, non più paternalistica ma di timore e di freno nei confronti di un’eccessiva e mal tollerabile per l’occidente, espansione militare ed economica del Giappone.
In questo contesto si colloca la riforma giuridica verificatasi durante l’epoca Meiji, momento storico che non può esser solo ridotto ad un’analisi del dato legale, sicuramente significativo ma non prevalente sulle istanze politiche, economiche e culturali che hanno attraversato il Giappone in quei decenni.
Anche nel campo della cultura giuridica il Giappone fu sedotto dai modelli europei, francese, inglese e tedesco in particolare. Il processo di recezione del dato normativo fu caratterizzato dall’alternarsi di momenti di maggiore apertura a periodo di chiusura e di recupero della tradizione.
Le dispute interne sulla codificazione civile testimoniarono, inoltre la compresenza di diversi riferimenti culturali e giuridici che entrarono in competizione nel processo di recezione del diritto occidentale nel diritto positivo giapponese dal 1870 al 1900.
Le spinte per la circolazione dei modelli, prestigio ed autorità, si rinvennero contemporaneamente in Giappone. Apertura culturale e pressioni dall’esterno hanno convissuto in un periodo che ha riservato come si vedrà in seguito, per quanto riguarda la storia della codificazione, dei ribaltamenti di fronte.
Fa da sfondo a questa situazione l’elemento del nazionalismo, al quale spesso è stata affiancata l’immagine del Giappone. Si è detto come negli ultimi decenni del secolo XIX il Giappone sia passato da una fase quasi acritica di ipervalutazione del modello occidentale, ad una fase maggiormente riflessiva per poi adottare infine un approccio critico, a volte ostile, nei confronti dei paesi occidentali.
La nascita di sentimenti nazionalistici è comune a numerose nazioni coinvolte nel processo di modernizzazione. Se la disgregazione delle economie e delle società tradizionali hanno costituito il punto di partenza per la modernizzazione in Asia, l’impatto più significativo probabilmente è risieduto nell’introduzione dei modelli educativi occidentali, che hanno portato alla crescita di élites locali educate secondo parametri europei (chiamati talvolta “occidentalisti”), nuovi interlocutori in ambito internazionale che spesso sono stati portatori di esplicite istanze di progresso “a favore” delle loro nazioni natali.
A questa penetrazione culturale, al contempo, si è opposta la reazione dei governanti, impegnati a proteggere le loro posizioni di prestigio e privilegio ed a tutelare la tradizione, intimoriti dallo smantellamento, percepito spesso come troppo repentino, del sistema economico tradizionale. La modernizzazione in Asia si compone di questi due elementi inconciliabili, che convivono e non prevalgono del tutto l’uno sull’altro.
L’analisi della modernizzazione in Giappone rivela una propria specificità. Se l’ammirazione per la cultura europea e la volontà di offrire al Giappone un nuovo riconoscimento internazionale sono dei dati indiscussi, è necessario focalizzare quali siano le spinte sociali endogene che hanno consentito di apportare, nella metà del XIX secolo, dei significativi mutamenti all’interno della società giapponese.
La restaurazione dell’epoca Meiji muove i suoi passi dall’asserita volontà di porre fine al cosiddetto “duplice dominio” (dell’Imperatore e dello Shogun) per riattribuire i pieni poteri al primo e così poter restaurare l’età dell’oro del decimo secolo quando non si era ancora verificata la scissione dei poteri.
La corte imperiale di Kyoto intese intraprendere, con la cacciata con le armi dello shogunato, un programma di mutamento dei quadri, di contemporanea espulsione degli stranieri presenti in Giappone e di esclusione dei riformatori da ogni ingerenza nella vita politica.
Con l’appoggio dei samurai (ai quali era stata concessa la possibilità di mantenere i propri vitalizi e l’autorizzazione all’uso delle armi), dei contadini e dei commercianti ( i quali in realtà erano prevalentemente interessati alla possibilità di espansione dei loro commerci e non intendevano intaccare in alcun modo il vigente sistema feudale), la trasformazione si compiva proponendo una politica di isolazionismo reazionario.
In realtà, già solo un anno dopo la restaurazione dell’Imperatore agli antichi ranghi, il governo mutò la linea politica e si mosse in modo opposto, abolendo il diritto dei signori feudali (daimyo) di riscuotere i tributi dai contadini ed al tempo stesso liberando i medesimi signori feudali dall’obbligo di mantenere i samurai alle loro dipendenze.
L’unica concessione in favore dei daimyo e dei samurai fu una pensione governativa che, attorno al 1876, fu convertita nel pagamento di una somma globale da corrispondersi in tempi prestabiliti.
Nel nuovo contesto furono presto abolite tutte le prerogative delle differenti classi sociali, così come gli stemmi e gli abbigliamenti distintivi (celebre fu la disposizione che vietava ai samurai di continuare a portare il “codino” quale segno distintivo).
Numerose furono le proteste popolari e le rivolte contro queste riforme, ritenute impopolari dai ceti sociali maggiormente rappresentativi. L’alleanza tra i samurai appartenenti alla piccola nobiltà ed i commercianti costituì comunque un elemento di resistenza alle predette reazioni.
Insieme, queste due classi sociali determinarono la nascita di una categoria di uomini esperti nel commercio, nell’amministrazione della cosa pubblica e soprattutto abili nel non voler infrangere del tutto la struttura gerarchica tradizionale della società giapponese.
L’istituzione delle scuole statali, della leva militare obbligatoria, di un sistema catastale per le terre e di un nuovo calendario, tutti elementi che venivano a toccare in modo diretto le abitudini e le tradizioni dei giapponesi, veniva compensata da concessioni mirate da parte del regime Meiji, come la promulgazione della Costituzione del 1889 che, come si vedrà, porterà al riconoscimento di numerosi diritti in capo a tutti i cittadini giapponesi.
Tratto dal libro “Trattato di Diritto Comparato” diretto da Rodolfo Sacco – “Diritto dell’Asia Orientale” di Gianmaria Ajani, Andrea Serafino e Marina Timoteo, con la collaborazione di Chen Han, Andrea Ortolani e Piercarlo Rossi
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