Terminologia della Scienza Giuridica: Libertà e Diritto
Dopo un periodo in cui la terminologia nata dalla traduzione non era uniforme, verso il 1880 le traduzioni dei concetti occidentali si erano ormai standardizzate. A questo riguardo si possono prendere come esempio le vicende che portarono alla standardizzazione della traduzione di alcuni termini chiave.
Uno dei termini fondanti della scienza giuridica e politica occidentale è libertà. La traduzione odierna di libertà è Jiyuu 自由. Esso non fu un neologismo creato ad hoc in epoca Meiji, ma era un termine utilizzato nella letteratura in lingua cinese della scuola del buddhismo Zen. Nella terminologia buddhista Jiyuu significa libertà dagli affanni, e solo gli iniziati alle dottrine dello Zen possono raggiungere uno stato di jiyuu estremo.
Nel Giappone Tokugawa la libertà non era un valore socialmente condiviso e raramente il termine era connotato positivamente; il nucleo semantico richiamava l’egoismo, il desiderio di seguire le proprie inclinazioni a discapito ed incuranti del resto della società.
Fino al 1870 erano in uso quattro traduzioni di libertà: 自主 (jishu: autonomia, indipendenza, essere padroni di se stessi), 自由 ( jiyuu, libertà di seguire la propria volontà senza restrizioni), 自在 (jizai, libertà, simile a jiyuu, ma il secondo carattere “zai” ha una connotazione più stativa che direzionale, al contrario di yuu) ed infine 不羈 (fuki, che veicola l’immagine di un cavallo senza briglie).
Questi termini erano anche utilizzati in due composti: 自主自由 (Jishujiyuu: autonomo e libero) e 自由自在 (Jiyuujizai: completamente libero di seguire la propria volontà). I termini più usati erano jishu e jizai, mentre quella che in seguito sarebbe diventata la traduzione standard, jiyuu, era poco o per nulla usata.
Nel periodo Meiji il Giappone venne a contatto con le teorie politiche e giudiriche occidentali, con l’inglese “freedom” e “liberty”, il francese “liberté”, il tedesco “Freiheit”, l’olandese “vrijheid”. Jiyuu divenne intorno al 1875 il termine standard usato per tradurre il concetto occidentale di libertà, grazie anche all’influenza esercitata da due tra le opere più lette in quel periodo: Seiyou jijou (La situazione in Occidente) di Fukuzawa Yukichi, pubblicato in tre volumi tra il 1866 ed il 1870 e Jiyuu no ri (L’idea di libertà) di Nakamura Masanao, traduzione di On Liberty di J.S. Mill, apparso nel 1871 […].
Un’altra vicenda degna di nota riguarda la traduzione di diritto, Recht, Right, Droit. Nel periodo Heian (810-1185 d.C.) era presente un termine per esprimere posizioni assimilabili al moderno diritto soggettivo, o meglio, ad un fascio di diritti e doveri legati sinallagmaticamente. Tale parola, mutuata dalla terminologia dei rapporti tra il signore e i suoi vassalli, era Shiki, ed indicava il diritto di godimento del vassallo sulle terre ricevute come beneficium dal signore.
Essa divenne obsoleta durante il periodo Tokugawa (1600-1868). La scienza giuridica Tokugawa faceva uso di termini come Ken, un carattere arcaico che indicava una bilancia o un metro di paragone, e per estensione il diritto/potere del sovrano di governare la nazione, oppure Hou, carattere anch’esso arcaico che denota l’idea di pena o disciplina, legge suprema o regola posta dall’autorità, ma si trattava di una terminologia incerta.
Fu naturale quindi che gli studiosi del Giappone Meiji, che guardavano con ammirazione alla scienza giuridica europea, sentissero la necessità di coniare un nuovo termine per esprimere l’idea di diritto soggettivo, una delle pietre fondanti degli ordinamenti liberali. Il termine “diritto” presenta problemi di traduzione anche nelle lingue europee: mentre l’inglese differenzia nettamente law e right, in italiano, francese, tedesco e olandese “diritto”, “droit”, “Recht”, “regt” racchiudono in se l’idea di diritto in senso oggettivo ed in senso soggettivo. La concenzione del diritto allora prevalente in Giappone, come un sistema di regole posto dall’alto, in cui prevalgono gli aspetti repressivi, era ben espressa dai termini 法Hou, 令Rei e 律 Ritsu. Questi termini tuttavia non indicano gli aspetti soggettivi, e quando si presentò la necessità di tradurre “right”, gli intellettuali dell’epoca si trovarono in difficoltà.
Le prime traduzioni di testi olandesi ad argomento giuridico risalgono al periodo bakumatsu ( periodo finale dello Shogunato Tokugawa compreso tra il 1853 e il 1868), ma furono traduzioni che non riuscivano a trasmettere in pieno l’accezione giuridica del termine. Un’eccezione notevole fu quella di Mitsukuri Genpou, appartenente ad una nota famiglia di interpreti e a cui era stato chiesto nel 1839 di tradurre i codici olandesi: la sua traduzione di regt fu 正律(Seiritsu), un composto di “giusto” e “diritto”, “regolamento”. Questa traduzione non sopravvisse a lungo, ma fu uno dei primi neologismi che riuscivano a trasmettere la concezione occidentale di diritto, right, ius.
Il primo tra i traduttori dell’epoca Meiji a rendersi pienamente conto delle difficoltà di traduzione di “diritto“, a tentarne una traduzione ragionata e ad arrivare vicino alla creazione di una buona traduzione fu anche in questo caso Fukuzawa Yukichi. Egli riconobbe che in inglese right ha una doppia connotazione, una relativa all’etica e alla sfera dell’onestà e della giustizia, un’altra più vicina alla sensibilità giuridica e relativa all’autorità ed al potere di fare qualcosa. In principio provò a tradurre right con termini classici cinesi; non soddisfatto del risultato, decise di accostare i due ideogrammi 通 (tsu: letteralmente via, passaggio, in senso figurato generale) e 義 (Gi: giustizia) dando vita al termine 通義Tsugi […].
Tsugi non soddisfò mai appieno Fukuzawa, il quale, soprattutto nelle opere giovanili ripeteva che nonostante avesse usato spesso quel Tsugi come traduzione di right, questo termine in inglese aveva un significato diverso che la parola giapponese non riusciva ad esprimere. Fu nel dibattito politico ed intellettuale degli anni ’70 del XIX secolo che si pervenne alla traduzione standard di “diritto” come 権利 Kenri e che si sviluppò la fondamentale opposizione tra il diritto inteso in senso oggettivo, in quanto esplicazione del potere dello Stato, e diritto come diritto soggettivo.
Tratto dal libro “Trattato di Diritto Comparato” diretto da Rodolfo Sacco – “Diritto dell’Asia Orientale” di Gianmaria Ajani, Andrea Serafino e Marina Timoteo, con la collaborazione di Chen Han, Andrea Ortolani e Piercarlo Rossi
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