Gli tsukemono, il cui nome deriva da tsuke, “inzuppare”, e mono, “cose”, appaiono per la prima volta in scritti degli anni 729-749 d.C. che si riferiscono a conserve di zucca e germogli. Il Giappone, infatti, ha sentito presto l’esigenza delle tecniche in grado di preservare gli alimenti nel tempo mantenendone intatte le qualità organolettiche. Durante il periodo Heian (794-1185) la cultura degli tsukemono cominciò a prevedere ulteriori variazioni rispetto alle semplici verdure sotto sale. Durante il periodo Edo (1603-1868), poi, furono inventati i sottaceti in salamoia e in crusca di riso fermentata. Le tecniche di produzione del periodo Edo furono ulteriormente sviluppate in epoca moderna.
Gli tsukemono sono un alimento imprescindibile nella cultura alimentare giapponese: appaiono nei pasti della casa imperiale, nella cerimonia del tè, accanto alle quotidiane ciotole di riso, e anche nel pasto vegetariano dei monaci. Oltre alle esigenze di conservazione e ai benefici sull’organismo, gli tsukemono svolgono un ruolo importante per quanto riguarda i principi tramandati dalla cucina tradizionale (kaiseki) di equilibrio del pasto.
Questi suggeriscono che un pasto dovrebbe contenere una varietà di colori, sapori, metodi di cottura, ingredienti stagionali, tenendo conto anche dei risultati sensoriali e considerando l’estetica. Gli tsukemono, grazie ai loro colori, ai sapori nitidi, sono fondamentali per creare questa armonia fatta anche di contrasti.
Fonte: Estratto tratto dal libro The Sushi Game – Guida Banzai alla cucina giapponese di Francesca Scotti e Alessandro Mininno
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