Forse Tokyo non sarebbe mai diventata un’invincibile babele in stile Blade Runner, il film di Ridley Scott che trasse ispirazione da Shinjuku, il quartiere che per primo, mezzo secolo fa, si votò a rappresentare il futuro.
Ma sono molti a ritenere che la fine della bolla immobiliare sia stata una fortuna per la città. Non che alla smania di quegli anni si sia sostituita una stasi: Tokyo infatti, con la metà dei due milioni di edifici che la compongono costruiti in meno di trent’anni, conserva intatta la sua natura camaleontica.
La demolizione è prassi comune qui, perché ciò che vale non sono i muri, bensì il terreno. Quanto viene edificato su di esso è destinato a vita breve. Ora la rincorsa dei prezzi si è fermata, ma è rimasta la voglia di rinnovarsi: la capitale è forse più viva di prima, perché ha acquisito consapevolezza dei propri limiti e può guardarsi dentro con maturità.
Una maturità che si manifesta anche nel recupero di quella che è stata la più profonda evoluzione imposta dal boom postbellico, come spiega l’architetto Jinnai Hidenobu: il passaggio dall’acqua alla terra, dai battelli alle ferrovie e alle automobili, dai canali alle strade asfaltate. Perché Tokyo era una città d’acqua. duemila chilometri di fiumi e canali, seimila ponti. Una toponomastica in cui la parola “Hashi”, ponte appunto, è onnipresente.
Ora si è avviato il recupero, cominciato con la rinascita delle zone intorno al fiume Sumida e proseguito con la riscoperta del mare. Odaiba, un’isola in parte artificiale costruita compattando l’immondizia, magari potrà essere giudicata un monumento al kitsch, ma ha aperto la strada a una valorizzazione di tutta la baia che restituisce a Tokyo orizzonti come solo l’oceano può dare.
In effetti nella capitale non si è masi smesso di costruire, e oggi la città è pulita, ordinata, efficiente, sorprendentemente verde, usufruibile per tutti. Tanti gli architetti suoi artefici – da Kazuyo Sejima a Tadao Ando, da Toyo Ito a Kengo Kuma – ma uno tutti, Kenzo Tange, è il padre padrone dello “skyline” cittadino… anche s epoi, a ben guardare, sono ben altri i padroni.
Shibuya, il più movimentato quartiere della città, molto amato dai giovani, è nato da un accordo fra due colossi del commercio cittadino: Tokyu e Seibu che, invece di farsi concorrenza, hanno unito i loro capitali per cucinare e poi spartirsi una torta gigantesca, cioè i proditti derivanti dal quasi-monopolio su un punto chiave della città.
“Non hanno solo fatto un megainvestimento”, dice l’architetto Julian Worral, australiano da anni residente in Giappone; “hanno definito la forma e la ragione d’essere dei quartieri di Tokyo del terzo millennio: il loro prodotto è la città stessa”.
In altre zone ci sono differenti gruppi economici che dettano legge. E, come a Shibuya, non si limitano a prendere: danno anche il tono all’impianto urbano e si inseriscono nel tessuto sociale, influenzando mode e comportamenti. Il caso più appariscente è quello di Roppongi, il quartiere più internazionale.
Dopo la guerra vi risiedevano i militari americani e per questo divenne il luogo di contatto tra occupanti e occupati, oltre che di bevute, di gioco e altro ancora. Tale aura continua a circondare la zona, ma a rinnovarne il significato e prospettive sono state anche qui un paio di società private, questa volta in aperta concorrenza: la Mori Building Co. – che ha costruito il complesso Roppongi Hills – e la Mitsui, che ha finanziato Midtown.
Questi due nuovi colossi da cinquanta e più piani (2003 e 2007) hanno avuto un impatto fortissimo sul distretto, e non solo. Roppongi infatti oggi si vanta di costituire il “triangolo dell’arte” cittadino, grazie alla presenza di tre grandi importanti musei: il National Art Center, il Mori Art Museum, ospitato ai piani alti di Roppongi Hills, e il Suntory Museum di Midtown.
Tratto dalla rivista Meridiani – Giappone (Anno XXIV – N.195)
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