In Giappone come altrove, le prime età dell’uomo furono circondate da un alone di mistero: il mondo dei morti era già quello degli dei. La forza delle leggende fu così duratura che ci vollero più di quindici secoli perché si attribuisse un’origine umana alle vestigia delle antiche civiltà.
Nel VII secolo, scavando le fondazioni di un tempio nell’antico paese di Kinki, alcuni sterratori portarono alla luce una campana di bronzo senza batacchio (Doutaku), un oggetto di cui sfuggivano ormai il senso e la natura. Ci si affrettò a mandarla all’imperatore, il solo rappresentante degli dei in terra. Altrettanto avvenne per le punte di freccia trovate agli inizi del IX secolo nel paese settentrionale di Dewa. Vi si vedeva un venerabile prodotto dell’industria degli dei.
Tutto cambiò alla fine del XVII secolo grazie a illustri studiosi quali Arai Hakuseki e Ito Tougai. Il primo, incuriosito dalle punte di freccia che si scoprivano qua e là, avanzò l’ipotesi che fossero state fabbricate dagli Jurcin o Ju Chen, tungusi della Cina del Nord di cui parla la letteratura antica. Il secondo stabilì un rapporto di forma e di funzione fra gli “uomini di pietra”, le figurine funerarie giapponesi di terracotta (Haniwa) e le statuette funebri cinesi (ming-ch’i). L’archeologia giapponese era nata.
Importanti scoperte vennero a poco a poco a confermare le supposizioni degli arditi innovatori. Nel 1676 si ritrovò la stele di fondazione dell’antico paese di Nasu, nell’odierna prefettura di Tochigi. Nel 1728, nel paese di Yamato (Nara-ken), fu portata alla luce l’iscrizione funeraria di Kibi no Makibi, il presunto inventore del sillabario giapponese (694-775).
Nel 1784, un contadino rinvenne nei pressi dell’odierna Fukuoka il sigillo d’oro che un imperatore cinese Han avrebbe mandato al “re del paese dei No di Wa”; se l’autenticità del sigillo è ancor oggi oggetto di polemiche, la scoperta non suscitò minor entusiasmo nella giovane scienza, entusiasmo che fu ancora incoraggiato dalla scoperta fatta nel 1822 di giare funerarie a Mikumo (Fukuoka-ken). In tal modo la sensibilità del pubblico colto si risvegliava a poco a poco alle antichità giapponesi.
Nello stesso tempo, gli studiosi del Kyuushuu settentrionale, di Kyoto e di Edo le descrivevano sistematicamente e ne facevano l’inventario: erano affascinati dalle grandi sepolture a tumuli, le tombe di guerrieri rivestiti di ferro, strane sagome montuose e ondulate che interrompevano il piatto orizzonte delle risaie. Matsushita Genrin studiò per primo la questione nel 1696; più tardi, Gamou Kunpei descrisse la forma classica di queste grandi tombe a “buco di serratura”.
Il grande movimento di riforma e di rinnovamento nazionale dell’era Meiji (1868) apportò un grande fermento di attività e una buona giustificazione alla ricerca delle antichità nazionali. Ci volle però l’intervento di studiosi stranieri perché l’archeologia giapponese, alimentata ormai da scavi e non più da soli rinvenimenti, abbandonasse il campo della fantasticheria storica.
Nel 1877 l’americano Edward S. Morse scoprì e scavò a Omori, vicino a Yokohama, un cumulo di conchiglie (Kaizuka): prima di lui nessuno aveva pensato che potessero esistere in Giappone questi sorprendenti scarichi delle età preistoriche. Questi scavi, e il rapporto che fu dapprima pubblicato in inglese e poi in kanbun, e cioè in cinese – veicolo tradizionale di ogni pensiero scientifico -, furono all’origine di un grande movimento scientifico, che fu portato avanti dagli allievi stessi del Morse.
Il più celebre fra loro è Tsuboi Shougorou, a cui si deve la scoperta di ceramiche fino allora ignote appartenenti al calcolitico giapponese, un’epoca caratterizzata dall’impiego del tornio, dalla conoscenza della metallurgia e dalla risicoltura. Le fu dato il nome di Yayoi, dal quartiere di Tokyo dove Tsuboi Shougorou ne portò la luce (1884) i primi esempi.
Due anni dopo (1886), la fondazione del “Journal of the Anthopological Society of Japan” consentì la pubblicazione di lavori relativi alle origini del paese. Nel 1895 si pose mano alla compilazione, fondamentale, di repertori degli scavi. Gli storici che Miyake Yonekichi era riuscito a convincere dell’aiuto che la nuova disciplina avrebbe loro offerto partecipavano attivamente ai lavori del gruppo. Nel 1896 fu fondata la “Società giapponese d’archeologia”, strettamente legata al Museo imperiale di Tokyo.
L’archeologia giapponese, fino allora sempre dipendente da studiosi stranieri, raggiunse presto il livello di scuola indipendente grazie all’Università di Kyoto e sotto la direzione di Hamada Kousaku. Questi era stato in Inghilterra, dove aveva studiato egittologia con F. Petrie. Tornato a Kyoto, inauguro nel 1916 una serie di corsi che fondarono l’archeologia moderna in Giappone. Sua espressione periodica fu la “Rivista archeologica dell’Università di Kyoto”, il cui primo numero uscì nel 1917. Egli conduceva d’altronde degli scavi i cui rapporti erano altrettanti esempi di metodologia. Nello stesso tempo e nella stessa università, Umehara Sueji e Takahashi Kenji inauguravano le ricerche contemporanee sulle grandi sepolture (kofun).
Fu agli inizi dell’era Showa (1925) che gli antropologi, unendosi agli archeologi, diedero inizio, sotto la direzione di Nakatani Jiujirou, allo studio sistematico delle civiltà dell’età della pietra. Yamanuchi Sugao, Yawata Ichirou e Kouno Isamu si dedicarono così ai problemi sollevati dalla cultura Joumon, mentreché Morimoto Rokuji si interessava allo Yayoi e alle origini dell’agricoltura.
Fonte: Estratto tratto dal libro Archaelogia Mundi – Enciclopedia Archeologica – Giappone (Nagel)*** Se trovi gli articoli, le traduzioni e le recensioni di questo sito utili, per favore sostienilo con una donazione. Grazie! ***