E’ l’esatto opposto di qualunque idea di razionalità; è tanto costoso quanto scomodo; rappresenta la rigidità della virtù, dell’ordine, della modestia, ossia quanto di più indigeribile per una donna che voglia essere (e alla quale venga chiesto di essere) moderna, attiva, propositiva.
Eppure, in pieno XXI secolo, sono assai poche le ragazze giapponesi che non abbiano mai indossato o desiderato indossare un kimono; ancora meno sono le mamme il cui sogno non sia di vedere la figlia avvolta da un frusciante e sgargiante furisode, il kimono per le giovani “da marito”.
Tutte d’accordo, le signore, anche nell’affermare che un uomo in kimono è più bello e interessante di un uomo in jeans. Insomma, il kimono è tutt’altro che morto, anche se le donne oggi vogliono accavallare le gambe e gli uomini non sono più samurai.
Nulla a che vedere con i “costumi tipici” che da noi vengono esibiti a uso dei turisti. Ci sono certi momenti, alcune scadenze precise, in cui il kimono affiora e si impone: la presentazione al tempio, la laurea, il matrimonio, i funerali, la morte. Tutto inquadrato in un intrico di regole tanto numerose quanto sottili: gli sbagli sono per chiunque sempre in agguato.
Tanto più lo sono oggi, dato che il kimono rappresenta uno strappo alla quotidianità. Ecco perché continuano a fiorire le accademie – coadiuvate dai più moderni sistemi di insegnamento – per chi voglia imparare il corretto portamento, il più idoneo accostamento di colori, il modo di vestirsi, già di per sè una specie di cerimonia che dura almeno un’ora, e perfino come ripiegare l’abito.
Quello che viene insegnato è il kimonese, una lingua senza suoni ma con una straordinaria molteplicità di significati e sottintesi. Nulla di straordinario: a qualunque latitudine e in qualunque civiltà, l’abbigliamento ha un apparato simbolico, importante quanto la concreta necessità di ripararsi dal freddo o soddisfare il pudore.
Ma il cammino parallelo di wafuku e yofuku, gli abiti tradizionali e quelli di foggia occidentale, ha creato in Giappone una duplicità di codici che richiede ripassi, specie per evitare che la grammatica e la sintassi di una lingua si riversino in modo cacofonico nell’altra. Che poi a questi due mondi, rigidamente separati, se ne possa aggiungere in futuro un terzo, fatto di casuali o volute contaminazioni, resta un interrogativo tutto da sciogliere.
Intanto qualcosa si muove. Nei matrimoni, l’occasione più ghiotta per sposi e invitati di vestirsi secondo tradizione, il tipico abito da sposa occidentale sostituisce sempre più spesso il kimono candido, anche se poi la sposa correrà a cambiarsi subito dopo la celebrazione per indossare il suo ultimo furisode e poi ancora il suo primo tomesode a sfondo nero da signora.
Anche lo yukata, il più semplice, leggero ed economico abito che rientra nella categoria dei kimono, sta guadagnando terreno. Nelle stazioni termali è normale passeggiare indossandolo, ma ormai anche nelle grandi città si vedono giovani coppie, in estate, andare in giro con lo yukata.
Si fanno anche ardite fusioni stilistiche, come calzare scarpe coi tacchi anziché i canonici geta di legno o gli zori di cuoio rivestiti di stoffa. Questa avanzata dello yukata è davvero innovativa perché nella rigida divisione tra wafuku e yofuku, cominciata intorno al 1880, l’unico tipo di abito “giapponese” salvato dal vortice della modernità occidentalizzante è stato quello da cerimonia.
Non fu un caso, bensì una precisa scleta politica da cui il Giappone di oggi è ancora condizionato. Una scelta fatta da una classe dirigente di stretta ascendenza samurai, ma già proiettata verso quel nuovo tipo di economia e di organizzazione militare che avrebbe presto trionfato.
In questo senso il kimono costituiva e costituisce tutt’altro che una reliquia del passato, una sopravvivenza a metà strada tra il romantico e il patetico. E’ un preciso veicolo di stabilità sociale, il traino dell’apparato culturale che ancora nutre il nazionalismo nipponico.
E secondo questo apparato lo yukata sta ai margini: indica il limite di informalità consentito. In teoria non gli sarebbe permesso di suggerire il cambiamento
Tratto dalla rivista Meridiani – Giappone (Anno XXIV – N.195)
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