Si dice che la civiltà giapponese sia in gran parte copia della civiltà cinese, attraverso il “ponte” rappresentato dalla Corea; e nessuno potrebbe negare l’imponenza del grande modello, che del resto è stato maestro a tutta l’Asia.
Ma la civiltà cinese per la sua stessa vastità e varietà si è disposata ai tratti di diverse tradizioni. Una volta ha fecondato la rozzezza dei pastori e razziatori mongoli, un’altra la silenziosa e contemplativa frugalità dei tibetani, e un’altra ancora la solida robustezza dei contadini e pescatori delle isole nipponiche, limitandosi per altro a influenzarli, senza mai conquistarli.
In Giappone il modello cinese talvolta sovrabbondante nella letteratura, nell’architettura, nella scultura e nella pittura si semplifica, si fa più essenziale e raffinato. Il buddhismo cinese assume tratti locali e si alterna allo shinto, l’antica “via degli dei” alla quale si ricollega la discendenza imperiale.
Si dice che i giapponesi si sposino con rito shintoista, luminoso e sorridente, e si facciano seppellire con rito buddhista, serio e meditativo. Il Chan cinese della scuola prajna, diventando Zen giapponese, si esalta nelle forme della compostezza, del silenzio, dei gesti misurati; e trova espressione nella musica del koto, del shamisen, del yokubue-fuki, nella squisita poesia degli haiku; nelle mosse e nelle pause del Cha no yu o cerimonia del té, che si svolge in una cappella apposita e dura circa quattro ore; nell’ikebana o arte della disposizione dei fiori, nella quale uno stelo deve salire al cielo, uno avere una posizione centrale, e uno inclinarsi verso la terra; nella creazione dei giardini di piante o di soli ciottoli e pietre naturali (karesansui).
Gli abiti tradizionali di uomini e donne per tutti i giorni sono austeri, grigi o neri; ma l’esplosione di forme e di colori riprende i suoi diritti con i kimono, diversi da quelli cinesi, sontuosi e splendidi, uno diverso dall’altro, trasmessi da nonna a mamma, da figlia a nipote. Vengono portati nelle feste, e quella dell’ingresso a vent’anni nella maggiore età ai templi di Kyoto (il seijin-shiki che si celebra il 15 gennaio) non ha rivali nel mondo.
I ragazzi delle scuole vestono quasi sempre una divisa blu, e sciamano allegri in piccoli eserciti in tutte le località di interesse; le ragazze portano abitini alla marinara. Nel passato gli studenti del Todaiji, l’università di Tokyo, portavano tutti una divisa come tanti cadetti militari.
Gli uomini del resto anche nei giorni lavorativi tengono alla dignità dell’abito, spesso vestono in gessato blu col distintivo dell’azienda da cui sono fieri di dipendere. Oltre ai lussuosi kimono, i più semplici e pratici yukata (specie di pigiani d’uso corrente), fasce, bende frontali, fazzoletti, collane e monili sono scelti con cura. I ventagli (sensu) rendono fuggitivi i sorrisi, tracciano nell’aria armoniose movenze, e ingentiliscono le figure e i gesti.
Talvolta si alternano alle armi in schermaglie ritualizzate. Lanterne di carta oleata, palloncini luminosi, pareti scorrevoli dipinte rendono gli ambienti accoglienti e i piccolissimi giardini capolavori di decorazione naturale.
I giapponesi adorano i bambini, che sono accuditi con cura e allevati come ometti e donnine. Vengono presentati al tempio dopo la nascita, e poi di nuovo tre volte nella ricorrenza del 15 novembre in occasione dello Shichi-go-san, alla età di 3, di 5 e di 7 anni. Vengono abituati ad avere cura dei fuori e dei piccoli animali. Con un foglietto di carta sottile ripiegato abilmente producono centinaia di divertenti origami.
Ma questo paese in cui la gentilezza è legge, che si riflette anche nelle elaborate forme di cortesia della lingua parlata, che tengono rigoroso conto del sesso, dell’età e dell’autorità dell’interlocutore, è anche un paese forte, di grandi tradizioni militari.
La tradizione del Bushido (la via del guerriero) costituisce da un lato l’analogo della “cavalleria” feudale europea, con i suoi voti, la dedizione a difendere i deboli ed a raddrizzare i torti; ma è dall’altro unica nel suo genere, obbediente alle regole di un codice d’onore che viene rispettato anche nella lotta e nel duello con l’avversario. Il combattente giapponese non diventa mai vinto o servo; piuttosto si dà la morte con dignità.
Il guerriero è il samurai, membro di una casta rispettata; che presta fedeltà assoluta al daimyou, il signore del feudo (han) cui appartiene. In origine è soprattutto esperto nelle arti militari, (spada, equitazione, tiro con l’arco) che esercita come un dovere religioso; ma col tempo al Bu (le armi) aggiunge il Bun (l’istruzione), come raccomandano il Regolamento delle case militari del 1615 e i decreti dello shogun Yoshimune (1716).
Verso la fine del periodo degli shogun della famiglia Tokugawa, i samurai, oltre ad avere proprie scuole, costituivano la maggioranza degli iscritti nelle scuole superiori dette Shijuku, ed anche nelle università, qualificandosi subito al di sotto della nobiltà di corte e delle famiglie shogunali come classe di governo. Quando anche gente comune, come i figli dei mercanti ricchi, venivano infine ammessi a queste scuole, i figli dei samurai sedevano loro accanto impettiti, con due spade infilate nella fascia che cinge il ventre.
Quando i samurai erano ronin, cioè senza padrone, conservavano la loro etica e spesso si dedicavano agli uffici civici o all’insegnamento. In seguito all’introduzione della coscrizione militare e dell’adozione di tecniche occidentali, tra i due secoli, questo mondo a poco a poco scomparve, assorbito infine dal militarismo trionfante dopo le guerre con la Cina e con la Russia; ma rimasero la devozione patriottica e lo spirito di obbedienza fino al sacrificio di sé, indirizzato anche dopo la Restaurazione Meiji alla persona divina dell’imperatore.
La condotta pubblica dei samurai si è trasmessa a coloro che ne hanno ereditato lo spirito; e in certi casi assume forme rituali. Una vera e propria liturgia accompagna il tiro con l’arco. I contendenti sfilano davanti a immobili preti shinto. Indi, sostituiti gli abiti da parata con semplici tuniche, tirano con l’arco di legno naturale teso al massimo senza sforzo, su un disco di paglia intrecciata.
Come scrive un maestro Zen, “quando la tensione ha raggiunto il suo limite, il colpo deve partire, deve staccarsi dall’arciere come il carico di neve dalla foglia di bambù, prima ancora che egli ci pensi”. Dopo i tiri, i concorrenti vanno processionalmente dai preti a ritirare i premi in ordine di graduatoria: delle semplici sciarpe colorate.
Il pubblico che ha seguito con passione la contesa a questo punto travolge i ripari e fa a pezzi il bersaglio, conquistandosene un pezzetto come talismano. In altre feste i giovani, presso che nudi, competono per un simbolo, un rotolo, un bastone. Alla severa disciplina segue anche in quel caso una esplosione di gioia che ha un aspetto liberatorio.
Una pagina “nera” dell’occupazione giapponese in Cina fu il massacro di Nanchino nel 1937, sul quale i libri di scuola hanno sempre osservato un rigoroso “tabù”. Si calcola che durante l’occupazione avessero perso la vita non meno di 13 milioni di cinesi; l’episodio più sinistro fu l’allestimento di un lager dipendente dalla Unità 731, nel quale vennero fatti esperimenti biologici su prigionieri, rivaleggiando con quelli del famigerato dott. Mengele nei campi nazisti.
Ma altissimo fu il prezzo pagato anche dalle popolazioni degli altri stati entrati malvolentieri nell’orbita di quella che la propaganda chiamava enfaticamente la “più grande Asia”: Manciuria, Indocina, Birmania, Indonesia e arcipelagi, dove la durezza dell’occupazione non risparmiò nessuno.
Tratto dal libro Il Caso Giappone – Educazione e sviluppo nel Paese del Sol Levante di Mauro Laeng, Hervè A. Cavallera, Sandra Chistolini, Koichiro Maenosono, Yasuo Takakuwa, Alberto Nigi e Clara Tsugiko Sakai
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